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Ti conosco, mascherina

Maurice  Guibert, Toulouse Lautrec in abiti giapponesi,1892
Maurice Guibert, Toulouse Lautrec in abiti giapponesi,1892

Da un po’ di giorni ho in mente alcune fotografie scattate tra Ottocento e Novecento in cui artisti o fotografi assai noti posavano mascherati, per ritratti o autoritratti.
Il più simpatico e famoso è Henri de Toulouse Lautrec, che, nel 1892, in veste di imperatore giapponese, Pierrot e femme fatale con tanto di boa di struzzo, sfilò davanti all’obiettivo del suo amico Maurice Guibert.

Maurice  Guibert, Toulouse Lautrec, 1892
Maurice Guibert, Toulouse Lautrec, 1892
Maurice  Guibert, Toulouse Lautrec, 1892
Maurice Guibert, Toulouse Lautrec, 1892

Lo stesso anno –  e presumo nella stessa sessione – l’eclettico Henri fu pure protagonista di un ritratto nel doppio ruolo di modello e pittore.

Maurice  Guibert, Toulouse l Lautrec, 1892
Maurice Guibert, Toulouse Lautrec, 1892

Non una novità: vent’anni prima, nel 1871, per la precisione, Oscar Gustav Rejlander, moralista per indole e quindi decisamente meno sarcastico di Toulouse Lautrec, costruì un analogo autoritratto intitolato L’artista Rejlander presenta il volontario Rejlander, in cui compare sia nelle vesti di fotografo che nelle vesti di soldato.

Oscar Gustave Rejlander "L’artista Rejlander presenta il volontario Rejlander", 1871
Oscar Gustave Rejlander “L’artista Rejlander presenta il volontario Rejlander”, 1871

Il desiderio di ricorrere quantomeno alla finzione, se non al mascheramento, era tanto comune fra i pionieri da permetterci di individuarne il capostipite, ovvero Hippolyte Bayard, con il suo Autoportrait en noyé [Autoritratto da annegato], realizzato nel 1840, data che segue di un solo anno la presentazione al mondo della dagherrotipia.

Hippolyte Bayard, "Autoportrait en noyé", 1840
Hippolyte Bayard, “Autoportrait en noyé”, 1840

Rimestando tra le immagini del nostro Paese, nel 1887, lo scrittore Luigi Capuana, alle cui velleità di fotografo Leonardo Sciascia dedicò alcune pagine brillanti, inviò agli amici un autoritratto nel quale si fingeva morto. Scrive Sciascia nella prefazione al volume di Andrea Nemiz Capuana, Verga De Roberto  – Fotografi (Edikronos, 1982):  «Per Luigi Capuana e Giovanni Verga, che nascono negli stessi anni in cui nasce la fotografia, la camera oscura credo contenesse meno misteri e meno provocazioni che per Roland Barthes circa centovent’anni dopo (…) Per loro era principalmente un “diletto” e nemmeno è da credere che con piena consapevolezza l’assumessero nel credo verista: se l’oggettività, l’impersonalità che perseguivano nell’arte loro l’avessero conferita all’arte fotografica, ciò sarebbe valso non a rafforzare la fede loro ma propriamente a ricredersi».

Luigi Capuana, "Autoritratto da finto morto",
Luigi Capuana, “Autoritratto da finto morto”, 1887

Sempre sul finire dell’Ottocento e sempre sulla scia di un gusto filo-necrofilo, privato però dell’ironia graffiante di Bayard o ingenua di Capuana, troviamo Fred Holland Day, intento a riprendersi nientemeno che nei panni di Gesù crocefisso, nella conosciutissima serie Le sette ultime parole di Cristo (1898).

Fred Holland Day, "Last Seven Words"
Fred Holland Day, “Last Seven Words”, 1898

Non meno fruttuosi furono gli anni Venti e Trenta del Novecento, dove solo per portare un paio di esempi, scorgiamo Marcel Duchamp nei panni del suo alter ego femminile Rrose Sélavy o ritroviamo Wegee fotografato dietro le sbarre mentre interpreta la parte di uno dei suoi delinquenti (1937).

Man Ray, "Marcel Duchamp/Rrose Sélavy", 1921
© Man Ray, “Marcel Duchamp/Rrose Sélavy”, 1921
Weegee (Arthur Fellig), "Behind Bars", 1937
© Weegee (Arthur Fellig), “Behind Bars”, 1937

Dal secondo dopoguerra in poi le cose cambiarono, i fotografi e gli artisti che ricorsero al travestimento o alla messa in scena persero la freschezza dei loro predecessori. Non rinunciarono certo all’autoironia, basti pensare a Urs Lüthi, ma indubbiamente a quell’innocenza che in origine li faceva approcciare spensieratamente alla fotografia.

Urs Lüthi, Autoritratto con boa, 1970
© Urs Lüthi, Autoritratto con boa, 1970

La fotografia, per usare le acute parole di Jean – Claude Lemagny, ormai diventata “insicura di sé”, aveva indissolubilmente annodato il travestimento a un pensiero strutturato che sfociava nel concettuale, facendolo culminare, magistralmente, con gli Film Still di Cindy Sherman.

Cindy Sherman. "Untitled Film Still 16", 1978
© Cindy Sherman. “Untitled Film Still 16″, 1978

Insomma, con il passare del tempo la questione si è fatta seria, ma forse ci siamo dimenticati che anche il gioco, serio, lo è.
A ciò si aggiunga che, con l’avvento e il radicamento della tanto discussa street photography, ma già con il reportage sociale (di fatto la stessa pratica chiamata chissà perché con due nomi diversi) tanti fotografi hanno scelto non di indossare ma di catturare i costumi fra il costume, sottraendosi definitivamente all’obiettivo.
Quindi, a noi, cosa rimane? Nei cassetti, qualche immagine dei carnevali in cui, bambini, impersonavamo Zorro o Biancaneve.
Possibile che in epoca di selfie ci si prenda tanto sul serio da non aver più voglia di sognare un’identità fantastica?
Io ho ceduto alla tentazione e su richiesta della mia amica e brava fotografa Ottavia Castellina, per il suo lavoro Dreams-cabinets, mi sono trasformata in un’esploratrice degli anni trenta.

Ottavia Castellina, dalla serie "Dream-cabinets", 2013
© Ottavia Castellina, dalla serie “Dream-cabinets”, 2013

Ho “interrogato” e “attraversato” quello specchio magico che è la fotografia e – sono sincera – in abiti rigorosamente vintage, mi sono sentita a mio agio.
Del resto, un’inquadratura è in qualche modo una scena, dal greco skēné, tenda, fondale, palcoscenico e il teatro è pratica ancestrale e universale. Ho recitato e scherzato, in breve: mi sono divertita.
Vi invito a fare lo stesso. Non è mai troppo tardi per esprimere quel talento che, come cantava Jaques Brel, ci autorizza a diventar «vecchi senza essere adulti».

 

Il guanto bianco

© Sergio Giannotta, Senza Titolo, dalla sere "L'Aleph", 2016
© Sergio Giannotta, Senza titolo, dalla serie “L’Aleph”, 2016

Fotografi e curatori, spesso reciprocamente critici, sono accomunati da un oggetto apparentemente innocente: il guanto bianco.
Ricordo con lucidità il giorno in cui, appena laureata e felice di svolgere il mio primo incarico di catalogazione, entrati in merceria per acquistarne un paio che sanciva il mio ingresso in un ambiente professionale che ancora oggi mi appassiona. Confesso di custodirli ancora, quei guanti ormai sgualciti e inutilizzabili, per mere ragioni affettive, quasi fossero le  scarpe con cui imparai a camminare.
Il guanto bianco è da qualche secolo un oggetto/feticcio. Senza andare troppo in là con gli anni e fermandoci a fine Ottocento, giusto per restare coevi alla fotografia, feticcio lo era, nel 1887, quando il pittore Fernand Khnopff eseguiva l’inquietante ritratto della sorella/musa Marguerite o quando Max Klinger, nel 1881, realizzava la splendida e perturbante serie di incisioni intitolata Ein Handshuh “[Un guanto”, guarda un po’, bianco]. E che dire della foto senza titolo, ripresa da Man Ray nel 1930, dove le mani femminili dipinte in bianco e in nero, scatenano un groviglio ottico di reazioni inconsce sulla loro duplicità erotico-seduttiva?

© Man Ray, Senza titolo, 1930
© Man Ray, Senza titolo, 1930

Una sorta di feticcio, il guanto bianco, lo è pure nel momento in cui è adoperato per trattare le fotografie ed esprime al contempo i concetti opposti di rispetto e di sfida. “Trattare con i guanti” è una locuzione che implica amore e protezione, “Lanciare il guanto di sfida”, al contrario, significa dar origine a un duello, in cui l’immagine diviene simbolo dell’onore da difendere.
D’abitudine, chiedo a chi è in procinto di mostrarmi un lavoro se, per visionare il suo portfolio, io debba indossare i guanti che tengo sempre vicino a me. Con l’esperienza ho capito che nelle risposte «Sì, per favore» o «No, tocca pure», si annidano atteggiamenti che la dicono lunga sul rapporto che i fotografi hanno nei confronti di ciò che producono e nei confronti del lettore. Quindi, a meno che non si tratti di stampe particolarmente delicate, per cui non occorre neppure porre la fatidica domanda, raramente infilo i candidi accessori in anticipo, ma li sfioro facendo un cenno all’autore, nella speranza di sentir pronunciare due parole che, alle mie orecchie, suonano come una melodia distensiva: «Non servono».
Il guanto è una barriera protettiva, ma comunque una barriera, una maniera per evitare contaminazioni tra l’essere umano e l’immagine. È qualcosa che ammanta di sacralità la fotografia, strappandola al contesto “impuro” in cui è stata concepita, magari fra la polvere, il sudore o il fango. Mi trovo spesso a riflettere su questo aspetto mentre sono in archivio e con i guanti tratto materiali realizzati durante la Resistenza, nei boschi, in clandestinità, tra corpi che raramente conoscevano il piacere di un bagno. Ogni fotogramma reca tracce fisiche della fatica e della precarietà con cui fu scattato, tracce che ai miei occhi fungono da valore aggiunto. Ovviamente seguo le regole e assicuro che nessuno troverà mai le mie impronte sui fototipi che esamino, ma, mi perdonino i puristi, penso che la cura per una foto passi attraverso altre “cose”.
“Cose” più epidermiche, viscerali, sensoriali. Sarò sovversiva o forse romantica, i due aggettivi non mi sembrano oggi così distanti, ma sono convinta che un’immagine, una volta stampata e diffusa, appartenga allo sguardo e alla pelle di tutti e che la stessa immagine diventi preziosa quando smette di restare immacolata per iniziare invece a passare di mano in mano e di memoria in memoria, accogliendo su di sé sedimenti e nuove “cicatrici”.
Lo sanno bene i guanti bianchi, che, nonostante i ripetuti lavaggi, proprio bianchi non tornano più: trattengono la patina indelebile delle stampe maneggiate per ricordarci, forse, che la purezza in fotografia è un valore destinato a penetrare l’inespressiva superficie di un supporto, depositandosi su livelli di profondità decisamente maggiori.