Archivio mensile:marzo 2016

E arrivaron gli ambasciatori

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Hans Holbain il Giovane, “Gli ambasciatori di Francesco I alla corte di Enrico VIII”, 1533

Molto è stato scritto su Gli ambasciatori di Francesco I alla corte di Enrico VIII, dipinto firmato da Hans Holbain il Giovane nel 1533 e custodito oggi dalla National Gallery di Londra. Tra coloro che si sono spesi per darne una lettura puntuale, spicca Michel Butor, il quale, nei suoi Saggi sulla pittura, libro che consiglio vivamente, fornisce un’analisi impeccabile dell’opera.
Non solo Butor, personaggio assai sfaccettato, ma tutti gli storici dell’Arte concordano nel ritenere che i due ambasciatori siano la raffigurazione del potere temporale e del potere spirituale e che i ripiani dello scaffale presso cui posano, rappresentino, differenziandoli e unendoli al contempo, il Cielo e la Terra.
A noi, qui, non interessano le vicende dei due delegati, ma alcuni degli strumenti inseriti nel quadro sulla mensola superiore e sul pavimento, ovvero gli apparecchi astronomici utilizzati per individuare la posizione dei corpi celesti e il teschio realizzato con la tecnica dell’anamorfosi, tecnica che produce un’immagine fortemente distorta, la cui forma si rivela intelligibile solo se osservata da una particolare angolazione.
Gli apparecchi per guardare oltre, così come l’anamorfosi, spesso inclusa fra le suggestioni del precinema, erano fortemente presenti già nel Cinquecento e – attraverso i tre secoli successivi – ci conducono dritti alla fotocamera, salutata, fin dalla sua messa a punto, come una protesi in grado di dilatare le possibilità fisiologiche della vista umana, vestendo di visioni strabilianti il nostro povero occhio nudo.
Spazi siderali o microrganismi impercettibili, insomma l’invisibile declinato nelle sue forme più variegate: tutto poteva essere sondato, rivelato o millantato con la nuova tecnologia. Un’antica tensione diventava finalmente realtà.
Non è un caso che le contraddizioni scaturite fin dalle origini della fotografia da un’inedita e irresistibile frenesia dello sguardo, contagiassero anche uomini interessati più alla scienza che alla trascendenza.
A tale proposito, mi piace ricordare un piemontese, il poliedrico casalese Francesco Negri, il quale, nel 1885 circa, ottenne una preziosissima Fotomicrografia del Bacillo di Koch, ma, quindici anni prima, non rinunciò a rappresentarsi in un Doppio autoritratto spiritista: un divertissement che già metteva in discussione l’eccessiva credibilità conferita all’immagine fotografica.

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Francesco Negri, “Doppio autoritratto spiritista”, 1870 circa

Cielo e Terra, corpo e spirito, verità e menzogna. E una sola protesi. Protesi che produrrà un numero infinito di fotografie in grado di trasportarci dall’Ottocento fino ai giorni nostri. Citerò pochi esempi, i miei preferiti, forse chiarificatori, certo opinabili e non esaustivi: La Luna di Rutherfurd (1865), Giove e Saturno di Prosper e Paul Henri (1887), Raggi X del corpo umano di Zhender (1896), i tagli innaturali degli Equivalenti di Stieglitz (1923-1931) e dell’Onda verticale di Minor White (1947), i mari “immobili” dei Seascape di Sugimoto (a partire dal 1980), le Costellazioni di Fontcuberta (1993), in realtà moscerini spiaccicati sul parabrezza della sua auto, o, sempre dell’autore spagnolo, gli Emogrammi (1998), ovvero piccole gocce di sangue prelevate dagli spettatori che, drasticamente ingrandite, assumono forme poetiche e simboliche.

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Joan Fontcuberta, “Emogramma”, 1998

E a questo personalissimo elenco aggiungerei pure l’intero lavoro di John Hilliard che sulla fotografia e sulla fotocamera intesa come strumento protesico e illusorio, continua a riflettere e impartire buoni insegnamenti.
Tanta è la strada percorsa nella storia della visione, ma qual è la meta finale?
Mi piace pensare che la risposta si trovi proprio nel quadro di Holbein. Che, non dimentichiamolo, è un ritratto: gli oggetti che circondano gli ambasciatori compaiono per raccontare realisticamente e metaforicamente la loro storia. E lo stesso vale per noi.  Per quanto dispositivi, protesi, suggestioni ci portino lontano, alle soglie dell’impensabile, il vero scopo delle nostre ricerche è e resterà sempre quello di dare un senso alla nostra esistenza.

Nella fotofattoria

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© Gabriella Martino, dalla serie: “Il nido del cuculo”, 2016

Saranno le vetrine stipate di uova di cioccolato e pulcini di peluche, sarà l’orrenda mattanza di agnelli e capretti in vista dell’abbuffata pasquale, ma il mio pensiero in questi giorni è tornato spesso al contributo coatto che gli animali hanno fornito alla lunga stagione della fotografia.
Così ho provato a immaginare, con un certo imbarazzo per il genere umano, la fattoria ideale del fotografo tra Ottocento e Novecento.
Andiamo con ordine: per giocare alla vecchia fotofattoria occorre spazio.
Anzitutto è necessario costruire un pollaio: era il 1847 quando venne messo a punto il negativo per il processo all’albumina e circa il 1850 quando comparirono i primi positivi. La chiara d’uovo si dimostrò subito un ottimo legante che, mescolata allo ioduro di potassio e al cloruro di sodio, stesa su una lastra e poi immersa in un bagno di nitrato d’argento, dava origine alla formazione di uno strato di cloruro d’argento sensibile alla luce. Ironia della sorte, per restare in tema di pennuti, l’immagine era poi sviluppata in una soluzione di acido gallico. Si stima che in quegli anni, in una fabbrica di Dresda, si utilizzassero quotidianamente circa sessantamila uova per scopi fotografici. Lo stesso accadeva negli Stati Uniti, tanto che l’acuto Oliver Wendell Holmes, nel 1863, dopo la visita a uno stabilimento, a proposito degli sfortunati embrioni, scrisse: «diecimila nascituri, che attendono di cedere il loro prodotto incompleto, sono destinati a perire anonimi al solo servizio del sole, prima che il fato abbia deciso se dovranno essere galli o galline».
Accanto al pollaio, dovrà esserci una conigliera e poco più in là, una vasca per i pesci: il lasso di tempo che andò il 1851 e il 1861 fu il decennio del collodio umido e secco e delle gomme bicromatate. Le colle di pelle di coniglio e di pesce costituivano le gelatine ideali, o “pappe” come le definisce Ando Gilardi nella sua Storia sociale della fotografia, per creare le emulsioni a cui aggiungere gli agenti chimici o semplicemente per trattare le carte troppo acide o “flaccide”. Va detto che quest’ultima operazione è praticata ancora oggi da chi stampa a inchiostro e vuol ottenere supporti con discutibili effetti d’antan.
Posiamo ora la prima pietra per edificare una stalla capiente: nel 1871 Maddox affinò il procedimento alla gelatina al bromuro d’argento, che tuttora sopravvive per quanto concerne l’analogico, dove per gelatina s’intende un brodo cucinato con ossi di animali. Torniamo al gioco, dunque: durante la macellazione è inoltre d’obbligo tenere da parte il fiele di bue, che fu utilissimo per la coloritura a mano dei positivi monocromi. Mentre verso sera, al momento della mungitura, una scodella va conservata per la fotografia: lo zucchero di latte, infatti, che fu adoperato in alcuni casi per la riduzione dei sali d’argento durante il fissaggio, si otteneva proprio lasciando evaporare il siero caseario.
Il fotofattore più eccentrico potrà poi dotarsi di un alveare e provare così la tecnica della melotipia: tecnica d’inizio Novecento a base di miele e argento, che ebbe però scarsissimo successo.
D’estate, nelle brevi vacanze al mare, brevi perché in campagna c’è sempre da fare, pescare qualche seppia sarebbe di grande utilità: in epoca passata, il “talco di seppia” ricavato dal contenuto essicato della vescica del mollusco serviva sia per il fotoritocco, sia per la preparazione delle stampe ai pigmenti.
Ora, trascorsi gli anni, tutti questi fototipi, contenendo sostanze di origine animale, sono diventati dei veri e propri banchetti d’onore per microrganismi affamati. E siccome la fotografia non è eterna, paesaggi, palazzi, i nostri volti sorridenti e i ricordi di una vita potrebbero essere fagocitati (e in parte già lo sono stati) da questi esserini invisibili, in una sorta di nemesi e involuzione darwiniana.
Del resto si sa la sopravvivenza è una lotta e la bellica vicenda umana cominciò con un coltello e forse terminerà con un attacco batteriologico.
Ricreazione finita. La fotofattoria finisce in soffitta con l’avvento del digitale: gli animali, con polmoni o branchie, possono finalmente tirare un sospiro di sollievo.
E noi? O meglio le nostre “nuove” immagini? Chi se le mangerà? Forse il solito molesto virus che s’insinua nel pc, versione contemporanea e virtuale del microrganismo sopracitato? Forse, ma – soprattutto – se le mangerà il tempo. Pubblicate sui social e inghiottite da un brevissimo flusso temporale. Conservate sui supporti informatici che ancora non ci danno rassicurazione sulla loro durata.
Scrivere di fotografia ci riporta fatalmente alla storia delle immagini e l’iconografia ci insegna che il Tempo, Kronos, è rappresentato con sembianze umane. Cannibalismo insomma.
E – a conti fatti – non so perché, o forse sì, ma voglio esser buona, a me pare che tutto torni.

 

Posso farti una domanda?

02 - 14 marzo
Io, in bianco e nero, a 8 anni, mentre coloro un album ad acquerelli, 1976

L’Archivio fotografico Luciano Giachetti – Fotocronisti Baita di Vercelli, che ho il privilegio di dirigere da anni, conserva, oltre a centinaia di migliaia di fototipi, anche uno dei fondi fotografici resistenziali più importanti d’Italia.
Nel 2005, in occasione del 60° anniversario della Liberazione, organizzammo una mostra che divenne itinerante. Ove possibile, mi occupavo personalmente delle visite didattiche. Un giorno, in una cittadina del Vercellese, arrivò un gruppo di scolari di terza elementare: raccontai loro della Resistenza, di quali pericoli comportava fotografare e farsi fotografare in clandestinità, del valore della memoria che passa attraverso le immagini. Giunti davanti al ritratto di una staffetta partigiana, dissi: «Sapete bambini, questa signora che ha rischiato tanto, oggi è ancora viva e continua ad andare in bicicletta». A quel punto uno dei miei “uditori” in grembiulino nero alzò con forza la mano e chiese «Scusa, posso farti una domanda?». Al mio «Sì, certo», espresse il suo quesito: «Va bene, quella signora oggi è ancora viva, ma adesso è diventata a colori o è rimasta in bianco e nero?». Cercai di dare la risposta più seria possibile, poiché serissima era la domanda. E mi resi conto di aver ricevuto una lezione sulla fluidità della didattica.
Per quanto un insegnante imposti una lezione, per quanto cerchi di accordarsi con il “respiro” dei suoi allievi, egli dovrà sempre lasciare spazio alla capacità di stupirsi e di interpretare con elasticità (anche multidisciplinare) le esigenze di chi pone una questione. Ciò vale, a mio parere, soprattutto per il “fotodidatta” che bene sa quanto la fotografia, per chi la pratica, sia contemporaneamente un punto di partenza e di arrivo: una sorta di cerchio in cui s’inscrivono esperienze e urgenze.
Il medesimo concetto lo si può applicare a chi una fotografia, invece, la osserva: perché ciò che voleva sapere quel bambino, nella sua ingenuità, non era tanto il passaggio tecnico dal bianco e nero al colore, cosa che gli spiegai ovviamente, ma era se quella signora fosse in qualche modo rimasta ancorata al suo passato monocromo o se si fosse finalmente trasformata in qualcosa di reale. Per lui, il dato principale non era tanto il fatto di esser ancora in vita, quanto piuttosto il fatto di aver assunto i colori della contemporaneità, di essere diventata visibile e perciò percepibile anche da chi aveva otto anni.
Penso infine che la didattica “elastica” o “fluida” si possa sperimentare anche su noi stessi. Fate una prova, voi che come me siete nati in epoca analogica: io l’ho fatta. Prendete una vostra “vecchia” dall’album di famiglia e chiedetevi: «Sono ancora vivo, ma sono rimasto in bianco e nero o sono diventato a colori?». Provate a darvi una risposta che non passi (solo) dalla fotografia. Interrogatevi, non si finisce mai di imparare.

Una forma di preghiera

 

una forma di preghiera
Laura Manione, Immagine scattata involontariamente con smartphone, 2015

Sono laica e comunque non ho mai confuso religione e spiritualità. Coltivo una spiritualità che sovente mi capita di alimentare a contatto con la Natura. Ciò premesso, difficilmente questi sono temi che tratto a un primo incontro con le persone.
Lo scorso anno, il 29 marzo per la precisione, accadde però un fatto singolare: io, Gabriella, Teresa e Gianni tre fotografi con cui ho avuto modo in seguito di stringere una preziosa amicizia, decidemmo di darci un appuntamento al Parco Lame del Sesia, ad Albano Vercellese, per conoscerci nella realtà dopo mesi di rapporti virtuali su faceboock.
Gabriella e Teresa si erano appena iscritte a un mio laboratorio fotografico intitolato “Erbario intimo”, laboratorio che tenni poi a Milano in maggio e – forse per sondare in anteprima i miei metodi didattici – durante la nostra passeggiata, mi chiesero suggerir loro qualche esercizio fotografico.
In quella stagione non era ancora sbocciata tutta la fioritura e il percorso si snodava attraverso rami piuttosto spogli alla vista, anche se già carichi di minuscole gemme. Rami intrecciati all’infinito. Mi avvicinai a Teresa che li stava inquadrando con la fotocamera e le dissi: «Guarda, sembrano croci! Fa’ che queste tue immagini diventino la tua preghiera laica a questo luogo». Teresa si girò con aria interrogativa, mi sorrise e rispose «Molto laica».
Mi stupii subito dell’invito che le avevo rivolto e nei mesi successivi ci ripensai spesso, con un po’ di imbarazzo.
Nelle scorse settimane ho acquistato e letto Perché guardiamo gli animali? di John Berger (libro che consiglio vivamente a tutti) e nel capitolo intitolato “L’uccello bianco”, ho trovato e sottolineato queste parole: “In ogni caso viviamo in un mondo di sofferenza in cui il male dilaga, un mondo in cui le vicende non confermano il nostro Essere, un mondo al quale bisogna resistere. È in questa situazione che il momento estetico dà speranza. Il fatto che troviamo bello un cristallo o un papavero significa che siamo meno soli, che siamo più intimamente inseriti nell’esistenza di quanto il corso di una singola vita ci porterebbe a credere. (…) L’arte è una risposta organizzata a ciò che la natura ci permette di intravedere di tanto in tanto. (…) L’aspetto trascendentale dell’arte è sempre una forma di preghiera”.
In quel preciso istante ho trovato una risposta a ciò che d’istinto avevo detto ai miei nuovi amici e (in parte) una risposta alla Fotografia.