Archivio mensile:gennaio 2017

Innesti/Romanzo “giallo”: intervento di Marco G. Dibenedetto

 

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INNESTI – PICCOLI INTERVENTI DI GIARDINAGGIO VISIVO” è una rubrica, a cadenza variabile, che propone conversazioni “germogliate” sulla fotografia e sviluppate con persone e professionisti che operano in settori differenti.
Per l’innesto di oggi, ho coinvolto Marco G. Dibenedetto, scrittore torinese del collettivo ToriNoir e autore di una fortunata serie di romanzi che hanno come protagonista l’ispettore Rubatto.

Marco G. Dibenedetto
Marco G. Dibenedetto

Marco, benvenuto in giardino! Sono un’appassionata lettrice di noir e “gialli” ed è da tempo che rifletto sulla loro connessione con la fotografia…

Ciao Laura e grazie per avermi invitato nel tuo giardino. Per prima cosa vorrei farti i complimenti per la rubrica che hai ideato e, soprattutto, per il titolo che hai scelto.
Innesti, un termine evocativo e pieno di significati. Prima di iniziare la nostra conversazione, vorrei spiegarti perché, quando mi hai parlato del tuo progetto, sono stato entusiasta di poterne fare parte.
Secondo alcuni psicologi e sociologi, l’uomo non ha mai inventato nulla, nel senso che non ha mai creato qualcosa dal niente, ma ha avuto l’enorme capacità e la grande inventiva di mettere insieme due concetti, due cose, due oggetti, due…ecc… che apparentemente non erano in relazione tra loro. Ed è solo grazie a questa operazione di “azzardo ideativo” che l’essere umano ha costruito e ha scoperto cose, idee, filosofie, oggetti nuovi e utili per la propria evoluzione.
Ecco! Appena ho letto il titolo della tua rubrica, mi è venuta in mente la definizione agronomica di innesto: un portainnesto e un nesto che si fondono insieme, una parte basica che si fonda con una parte aerea per dare vita a una pianta nuova e diversa da quelle di provenienza.
Perfetto! Trasliamo questo concetto all’arte: cosa c’è di più meraviglioso di “creare”, di innestare? Penso che non ci sia nulla di più bello e affascinante.
Allora, perché fare foto? Perché scrivere?
La risposta è ovvia!

Mi pare che questo intervento cominci sotto i migliori auspici…
Partiamo da Torino, dunque, città che ha visto nascere il gruppo ToriNoir, di cui fai parte, insieme con altri undici giallisti piemontesi.
Il capoluogo piemontese ha uno stretto legame tanto con romanzo giallo – basti pensare alla coppia Fruttero & Lucentini, per citare un esempio storicizzato, ma che ha fatto storia –  quanto con la fotografia, prima e il cinema, poi. È a Torino, precisamente alla Galleria d’Arte Moderna, che si conserva, come sosteneva Marina Miraglia, «il più precoce esempio datato e letterariamente noto della dagherrotipia italiana giunto fino a noi», ovvero un’immagine della Gran Madre di Dio realizzata l’8 ottobre 1839, data che segue di pochi mesi la presentazione “al mondo” del procedimento messo a punto in Francia da Daguerre.
Nel mio giardino virtuale, tu sei graditissimo ospite nel ruolo di scrittore noir, ma non posso cominciare senza chiederti qual è invece il tuo rapporto con la fotografia e se in qualche modo tale rapporto è stato influenzato da una città con una così lunga tradizione in fatto di arti visive.

Io non so fare foto, se non con il telefonino… ahahah!

Infondo questa dichiarazione è un ossimoro. I telefoni cellulari sono dotati di una fotocamera: quindi, se sai fare buone fotografie con quegli apparecchi…

Lasciando perdere le battute, io per la fotografia ho un’altissima considerazione e credo che essa rientri a pieno titolo nel concetto più elevato di arte.
Il fotografo ha una responsabilità enorme, e mi spiego meglio: una foto è un particolare della realtà e non può essere che così. Anche un panorama è un particolare se lo consideriamo in relazione a qualcosa di più grande. E qui che interviene il concetto di fare Arte: cogliere qualcosa che non si è abituati a vedere; cogliere un particolare che non si nota per abitudine o per distrazione; un istante che altrimenti si perderebbe; una prospettiva differente dalla propria; una relazione fra elementi che non siamo stati educati a notare; cogliere ciò che manca all’interno di quel particolare.

Cogliere, che è, fra l’altro, un’azione correlata all’idea di un giardino. Mi piace sottolinearlo…

Sì, quello è il compito (e la responsabilità) che attribuisco al fotografo, oltre a carpire e innestare una luce dove prima c’era il buio.

Veniamo ora a quei giallisti che, oltre ad apprezzarla, hanno conferito dignità letteraria alla fotografia. Cito un esempio che amo molto: George Simenon e le indagini del Commissario Maigret. Le fotografie, per Simenon, raramente – o forse mai, vado a memoria – intervengono in qualità di elementi decisivi nella soluzione di un caso. Sono piuttosto oggetti che connotano ambienti e abitazioni, restituendo il carattere malinconico o dolente degli straordinari personaggi che li abitano.
Anche nel tuo romanzo Monkey Gland (2015, edizioni Golem) c’è un passo che colloca la fotografia in un’ottica più intimista. Vorrei che tu lo riportassi per intero.

Ora era lì, in un vero studio di fotografia con un autentico diploma appeso alla parete alle sue spalle e una fotocamera nel primo cassetto a destra della sua scrivania. Aprì il tiretto e osservò quello strano aggeggio. Adorava fotografare, era come se la semplice contrazione dei muscoli dell’indice di una mano rendesse immortale un momento che altrimenti sarebbe svanito e perso per sempre. Fotografare non era come scrivere o dipingere, dove dal nulla potevi creare un mondo secondo i tuoi desideri e i tuoi capricci. No! Fotografare era cogliere, estrapolare, rubare e catturare ciò che c’era già, ma che per distrazione o per pigrizia poteva non essere visto. Il fotografo ti faceva vedere il mondo con altri occhi, non alterandone il significato ma offrendoti solamente, ed era questo che l’affascinava, un differente buco nel muro attraverso il quale poter vedere.
Inoltre, c’erano fotografie che le erano rimaste in mente e che l’avevano fatta crescere. Una in particolare non si stancava mai di guardare, l’aveva scattata Bruce Chatwin durante un suo viaggio in Cile. Anna aveva cercato una sua riproduzione, ma non l’aveva trovata. Sembrava che a nessuno piacesse quella foto poco conosciuta. Ne aveva fatto fare una copia scaricando l’immagine dal web, e l’aveva appesa davanti al tavolo dove era solita mangiare. Al centro c’era il relitto di una nave arenato sul bagnasciuga di Punta Arenas, era come se dalla sabbia nascesse la chiglia con le relative costole: alcune rotte, altre solo accennate. La ruota di prua era ancora integra e sembrava indicare qualcosa da raggiungere. Quell’immagine era secca, nuda e cruda. Per lei, infatti, le foto non avevano nessun significato recondito, raccontavano un pezzo di realtà e la vita era fatta da tanti piccoli pezzettini. E quel frammento narrava la fine e la stanchezza dopo un lungo viaggio. L’abbandono dalle cose terrene per mischiarsi, come avrebbe fatto il legno dello scafo con la rena della spiaggia, con l’universo intorno a sé.

Grazie…
Ritorniamo sulla città e su ToriNoir, ma ampliamo il ragionamento, sconfinando dal capoluogo piemontese. Sul sito che ne divulga le attività, www.torinoir.it, si legge: «Per la prima volta un gruppo di scrittori torinesi si unisce per tentare un inedito esperimento culturale e narrativo: raccontare i cambiamenti della propria città attraverso il romanzo giallo-noir. Infatti, come sostiene lo scrittore inglese Jake Arnott, «Il noir riflette la società come se fosse uno specchio rotto. Riflette a pezzi. Mostra la società attraverso frammenti. Perché è l’unico modo in cui si può descrivere la società. La società non è una fotografia, è molte cose diverse insieme».
Secondo Arnott, quindi, «la società non è una fotografia», ma, rincalzo io, se il giallo «riflette a pezzi» e svela la contemporaneità «attraverso frammenti», infondo è più affine filologicamente alla fotografia di quanto non si possa pensare…

Io aggiungerei: la società non è una fotografia, ma la fotografia può rappresentare la realtà nelle sue molteplici sfaccettature! Ogni volta che rifletto su questa affermazione, mi sembra sempre più veritiera. La società non è solo quello che si vede, nasconde altro e come in una foto, al di là di quello che ritrae e di quello che rappresenta, contiene qualcosa che non è immediatamente distinguibile.
Ma chi seleziona cosa far vedere? Chi decreta cosa mettere in primo piano e cosa sullo sfondo? Chi sceglie cosa far entrare nella foto e cosa lasciare fuori campo?
La risposta può essere semplice, quanto complessa: non è unicamente il fotografo che decide, alcune volte è colui che osserva l’immagine a mettere in atto questa articolata operazione, proiettando sull’immagine il suo mondo interno. Una dinamica semplice, evidenziata dal conosciutissimo motto: ognuno vede ciò che vuol vedere.

Già. Al fuori campo fotografico, ovvero alla porzione di realtà esclusa dai margini di un’inquadratura e quindi perduta per sempre, sovente si deve sottrarre un fuori campo “temporaneo” determinato dallo sguardo dello spettatore, il quale, selezionando porzioni di una stessa immagine, di fatto prolunga e accentua il processo di taglio spaziale avviato dal fotografo. 
Il fruitore non è – quasi – mai passivo…

È in questo senso che io sento e percepisco il giallo-noir in stretto contatto con la fotografia. Lo scrittore e il fotografo operano forzatamente una scelta a priori, decidono anticipatamente su cosa e in che modo indirizzare l’attenzione del lettore o l’osservatore.
Il giallista, in particolare, deve avere la capacità di sviare il lettore, ma non troppo, dagli indizi principali ed essere in grado di collegare con un filo continuo e chiaro tutti i pezzi fotografici che conducono all’epilogo della storia. Deve avere la capacità di nascondere e poi svelare il mistero che permea l’intera indagine poliziesca.
Il romanzo noir, infatti, va al di là delle apparenze, scava sotto la superficie per accendere una luce sui diversi pezzetti dell’animo umano. Crea collegamenti dove prima non c’erano, mette in primo piano ciò che era sullo sfondo. Forse per questo io considero la fotografia come arte nel momento in cui essa sa connettersi con qualcosa che non si vede e che rimanda a un mondo altro.
Il fotografo gioca con il chiaro e lo scuro, i colori, la luce e indirizza lo spettatore verso il significato che vuole comunicare, senza mai dimenticare, però, che la foto (come il libro per lo scrittore), una volta resa pubblica non gli appartiene più.
Diventa degli altri e gli altri ne possono usufruire come meglio credono.

Rispettando almeno il copyright, però, concedimi la battuta!
Proseguiamo: Yves Bonnefoy, nel suo acutissimo Poesia e fotografia, cita ampiamente Edgar Allan Poe, ritenuto l’”inventore” del moderno investigatore. Bonnefoy sostiene che lo scrittore statunitense, introducendo nei suoi racconti un’attitudine “fotografica” alla rilevazione di indizi, di fatto inaugura «quel genere letterario destinato a un grande avvenire, l’inchiesta del detective».
Veniamo all’ispettore Rubatto, il personaggio che hai creato: quanto di fotografico c’è nello sguardo che egli pone sulla realtà o nelle sue deduzioni?

Il mio ispettore Rubatto non ama servirsi degli strumenti tecnologici e preferisce contare solo sulle proprie capacità intellettive e su quelle dei suoi collaboratori, il sovrintendente Stafano e l’agente Aceto.
Rubatto, nelle sue indagini, non pretende nessuna fotografia come prova e non va su Internet alla ricerca di informazioni, a differenza dei suoi fidati aiutanti. Lui accende il computer solo per giocare al “solitario” e non annoiarsi.
Ma la tua domanda ha colto nel segno. Rubatto ha uno sguardo fotografico e – di conseguenza – una memoria fotografica. Si ricorda di tutto e nota ogni più piccolo particolare. È un poliziotto vecchia maniera. La sua incompatibilità con la tecnologia, tuttavia, non deriva tanto da una formazione di stampo tradizionale, quanto dalla sua particolare filosofia di vita, che lo porta a essere un autentico “fancazzista” per pigrizia e svogliatezza. È stanco, è un uomo che segue la corrente, che si fa trasportate dagli eventi riuscendo comunque e sempre ad arrivare al colpevole e al suo arresto. Beve litri di vino bianco e fuma di continuo. Dorme in centrale durante le ore di lavoro e odia gli stacanovisti. È un purista dell’indagine: non utilizza strumenti altri che non siano i suoi cinque sensi.

Inquadriamo un altro personaggio dei tuoi libri. Giulio, fotografo della “Scientifica”: il suo stomaco debole, gli è valso il soprannome di “vomito facile”.
La storia della fotografia è intrisa di immagini post mortem, spesso particolarmente crude. Dalle raccolte ottocentesche di matrice vittoriana alle immagini di reportage o alle sperimentazioni più contemporanee, l'”estetica del cadavere” o – al contrario – il suo aspetto puramente repulsivo, sono stati ampiamente trattati nel dibattito storico critico legato all’immagine fotografica. Cito, fra i tanti che se ne sono occupati, gli studi di Ando Gilardi dedicati alla fotografia giudiziaria, noti per la loro acutezza e completezza.
E pure, saltando di palo in frasca, mi viene in mente la famosissima scena del carabiniere che sviene in aula durante la proiezione delle immagini nel processo al “mostro di Firenze”.
Ecco, a questo proposito, mi interessano molto l’atteggiamento del tuo personaggio e – ovviamente – le ragioni che ti hanno spinto a tratteggiarne la sua fragilità…

Perché ho creato un personaggio così per un mio romanzo? Perché scegliere un fotografo della “Scientifica” che vomita alla vista del sangue? Non so bene cosa risponderti, però credo che alcune volte ci si accorga del perché si fa una cosa solo dopo averla fatta.
Ritornando a quasi due anni fa, il periodo in cui scrissi Monkey Gland, ricordo molto bene il momento in cui inserii Giulio/ “vomito facile” all’interno della trama. Avevo pensato per parecchi giorni a come descrivere il personaggio del fotografo. Nell’immaginario collettivo, chi si occupa di delitti atroci è visto come un individuo caratterizzato da un forte “pelo sullo stomaco” e dalla capacità di non farsi coinvolgere troppo dalla e nella scena del crimine. È uno che rimane impassibile e freddo, che sa mettere un filtro tra sé e il mondo esterno. Per la precisione, è uno che non deve farsi toccare dalla violenza altrui. Così, a un certo punto, mi son chiesto: e quando costui termina il lavoro e ritorna a casa? L’immagine e l’odore del corpo della vittima, il rumore-silenzio del luogo dove è stato commesso il crimine che fine fanno? In quale anfratto del cuore e della mente si nascondono tutte le sensazioni? È davvero possibile non farsi toccare?
Come volontario psicologo, per diverso tempo, ho svolto un servizio di supporto (all’interno del servizio SPES – Servizio Psicologiche Emergenze Sociali) in collaborazione con il 118 di Torino. Sono stati anni di formazione molto intensi e una delle tantissime cose che ho imparato è che non è possibile restare estranei a certi “scenari”. Alcuni particolari ti entrano dentro e non se ne vanno più. Farsi contagiare dal mondo esterno è però una dinamica importante, poiché stimola l’empatia e aiuta a sviluppare la capacità umana della pietà e compassione, capacità intesa nel suo più profondo significato, quello della comprensione e della condivisione del dolore altrui.
E tutto ciò cosa c’entra con “vomito facile”?
C’entra, perché solo da piccolo mi piacevano gli eroi senza macchia e senza paura.
Tutti i miei personaggi hanno sempre un lato umano debole e fragile, non sono mai forti e puri. E, ironizzando sulla caratterizzazione di Giulio, cosa c’è di meglio di un conato di vomito per un fotografo della “Scientifica”?

Per la loro larga diffusione, fotografia e romanzo giallo sono inoltre legati, a mio parere, da una sorte comune. Quella di esser stati ed esser tutt’ora in parte considerati come espressioni di livello “inferiore” rispetto ad altre forme d’arte o di scrittura. Vi è ancora chi associa la popolarità con la superficialità, non cogliendone invece i risvolti culturali, concettuali e contemporanei. Chi si occupa seriamente di immagini lo sa bene e fa la sua parte, sdoganando – ove necessario – anche l’aspetto più comune e condiviso della fotografia.
Come si concretizza, in tal senso, l’impegno tuo e del collettivo ToriNoir nel conferire la giusta importanza alla letteratura gialla?

Il giallo-noir è stato, per molto tempo, visto come un genere di serie B e solo negli ultimi anni ha riacquistato il valore che merita. Non so bene cosa sia cambiato nella società e nella cultura, però so che il poliziesco è un genere completo: vi si può inserire qualsiasi cosa, qualsiasi sfumatura di emozione e quindi di vita. Chi di voi ha letto un noir, non può non aver notato che esso racconta anche storie di umanità, di gioia, di sofferenza, di felicità, di noia, di rabbia, ecc… Nella sua trama entra tutto, anzi, deve entrare tutto.
Per quanto mi riguarda, scrivo polizieschi perché li ho sempre amati e ho imparato moltissimo dalle storie a cui mi sono avvicinato. Ci sono stati anni in cui leggevo solo quelli e per me erano linfa vitale.
Il collettivo ToriNoir nasce nel 2014, dall’idea del presidente-giornalista-scrittore Giorgio Ballario di costruire un gruppo di giallisti accomunati dalla volontà di narrare Torino attraverso le loro opere. E così è stato. Ognuno di noi descrive la sua città e ne dà una versione che apparentemente potrebbe sembrare diversa. Uso il termine “apparentemente” di proposito, poiché, se si leggono i nostri romanzi con più attenzione, ci si accorge essi che dipingono un’unica Torino osservata però da angoli e prospettive differenti. Quello che ne viene fuori, oltre alla amicizia e alle cene che ci legano, è la fotografia di una città sfaccettata e con molteplici significati. Ogni piccolo pezzettino deve essere collegato agli altri, solo così si può avere una prospettiva più o meno reale di un luogo e delle persone che vivono in esso.
Il progetto ToriNoir è piaciuto molto. In un periodo dove ci si disgrega, ci si separa e si costruiscono confini, noi, nel nostro piccolo, ci siamo uniti per lavorare insieme senza invidie e senza puerili rivalità. Abbiamo fatto molto in questi due anni: tre agende letterarie MemoNoir e due antologie di racconti (La morte non va in vacanza, ed. Golem 2015; Porta Palazzo in noir, ed. Capricorno 2016) e tutte le volte ci siamo divertiti a scambiarci opinioni e critiche…anche sul vino che abbiamo bevuto!
Fruttero e Lucentini, grandissimi e bravissimi scrittori, sono stati per molti anni i rappresentanti del giallo torinese, ma dobbiamo renderci conto che la città e la mentalità che hanno descritto nelle loro storie sono passate, non ci sono più. Oggi ci siamo noi, nuovi autori che provano a dire la loro e che tentano di farsi notare in un mondo che corre veloce e che non aspetta.
Il pensiero di ToriNoir è pubblicato sul nostro sito e riassunto una sorta di “decalogo che vi consiglio di leggere e su cui vi invito a riflettere.
Ma una domanda sorge spontanea: chi decide qual è un libro di serie B e quale non lo è? Forse dobbiamo essere noi, lettori, a prenderci questo potere e questa responsabilità non seguendo le mode lanciate dalle grandi catene di distribuzione, ma andando nelle rivendite indipendenti, dove il libraio non è un mero commesso che ha come fine solo quello di trarre profitto. Il vero LIBRAIO è un lettore come te.
Ho girato moltissimi posti in questi ultimi anni per fare presentazioni e vi porto un esempio tra tutti (non me ne vogliano male gli altri che non cito): la libreria “Paravia” di Torino, gestita da due giovani sorelle, Nadia e Sonia, e da due collaboratrici, Laura e Silvia. Una équipe tutta al femminile. Non sono qui per sponsorizzare nessuno né per fare elogi. Però andate a fare un giro e vi accorgerete che davvero essere librai/ie non significa solo vendere.
Un ragionamento che non fa una grinza e che potrebbe tranquillamente adattarsi a certi galleristi e promotori dell’arte.  Molti lettori convergeranno con te su questo punto.

È arrivato il momento di salutarci. Permettimi di farlo esprimendo una curiosità: quale, fra i tuoi romanzi, si presterebbe meglio a esser tradotto in un racconto per immagini e perché?

A questa domanda non rispondo, ma ne rivolgo io una a te: perché non facciamo nascere un progetto da un progetto? Cara Laura, ti lancio una sfida: sarebbe carino e interessante organizzare una mostra fotografica, ovviamente curata da te, che abbia come soggetto la trama di un libro giallo-noir, ovviamente scritto da me!
Sfida accettata?

Io accetto subito e rilancio la tua proposta a chi ci legge, ti legge e fa fotografia. Sarebbe molto stimolante!
Doppio grazie quindi, Marco. Per aver lavorato in giardino con me a un nuovo innesto e per aver optato per un “finale aperto”.
Davvero potrebbe germogliare qualcosa…

Il nuovo romanzo di Marco G. Dibenedetto (ed. Golem)
La copertina del nuovo romanzo di Marco G. Dibenedetto

Per conoscere meglio Marco G. Dibenedetto e l’ispettore Rubatto, ecco un’essenziale bio/bibliografia:
Marco G. Dibenedetto svolge attività di libero professionista come psicoterapeuta e insegna in una scuola media superiore. Vive e lavora a Torino.
Dal 2012 a oggi ha pubblicato: E.N.D., forse qualcuno è già morto…, ed. Kilometrozero, 2012 (ristampato per Golem ed. 2016); Che idiota!, ed. Kilometrozero, 2012; Il mare odia gli spigoli, ed. Golem 2014; Monkey Gland, ed. Golem 2015; Una calda estate gialla, ed. Golem 2016 (con altri autori); I dubbi di Rubatto, ed. Golem 2016.

Soli

Orlando_Furioso_3.jpg Gustave Dore
Gustave Doré (1832 – 1883), “Angelica incontra un eremita”, illustrazione tratta dall'”Orlando furioso”.

Sono tre gli spunti che convergono in questo articolo.
Primo: la definizione enfatica e stratificata di “magnifici randagi” che Ando Gilardi diede dei fotografi ambulanti, pionieri della fotografia.
Secondo: la lettura di due libri legati alla tradizione orientale ortodosso-cristiana, ovvero Racconti di un pellegrino russo, attribuito con incertezza allo ieromonaco Arsenij Troepol’skij e Il deserto parla di Lucien Regnault.
Terzo: il mito della caverna di Platone, da molti ritenuto uno dei pilastri ontologici su cui poggia la fotografia.
Qual è il file rouge che unisce questi tre percorsi assai differenti fra loro? La solitudine o – per amor di precisione – l’eremitaggio.
Soli con il loro andare, barattando quel po’ di sostentamento economico con un ritratto, furono i “magnifici randagi” cui Gilardi riservò giustamente un posto centrale e oserei dire quasi sacrale nella storia della Fotografia.
Soli, alla ricerca di una verità ineffabile, vissero gli eremiti che sfidarono la steppa o le immense distese di sabbia, disposti esclusivamente a incontri fugaci, avvezzi a esprimersi – in particolare i Padri del deserto – mediante apoftegmi, vale a dire mediante brevi sentenze auto-conclusive delimitate da una sorta di margine linguistico – formale, assai simili a un’illustrazione.
Isolati, incatenati spalle al mondo, gli uomini che Platone, nel libro settimo de La Repubblica, collocò in una caverna la cui parete fungeva da schermo per la proiezione di una realtà sempre filtrata e perciò mai esperibile.
Per sbrogliare la matassa del mio ragionamento, dal ginepraio di significati contenuti nel “gettonatissimo” mito classico, non mi serve che un unico elemento: la caverna. La caverna come spazio fisico prodromo della fotocamera, poiché, come avrete intuito dagli indizi finora disseminati, ciò su cui intendo brevemente riflettere è la componente eremitica che vive o sopravvive (in una contemporaneità tutta votata alla condivisione, seppur virtuale) dentro ad alcune persone che praticano la fotografia e si impegnano a comprenderla a fondo.
Non sulla solitudine romantica del fotografo, irrorata da fiumi di inchiostro e sovente intrisa di oleografia, vorrei interrogarmi, ma su un preciso e assai più potente desiderio del fotografo. Quello di sottrarsi al mondo, rifuggendolo in un’infinita sequenza di attimi, per meglio meditarlo, mediarlo e rappresentarlo.
Non ho risposte certe, le fonti a cui sto attingendo non sono ancora sufficienti. Ho invece alcune domande, che pongo, in primis, a me stessa e poi ai miei lettori.
Cosa va cercando chi si porta appresso una piccola caverna in grado di offrire ricovero alle sue visioni più intime?
Oltre a essere un rifugio accessibile solo a chi la usa, la fotocamera, in qualità di apparecchio che misura e “spezza” il tempo, potrebbe essere un ipotetico sostituto della clessidra, tradizionalmente associata all’iconografia dell’eremita per simboleggiare la caducità della vita e delle cose? Le immagini, destinate anch’esse a scomparire, non sono in fondo che una disperata rincorsa all’eternità: passano come granelli luminosi attraverso un foro sottile per andarsi a depositare su una pellicola o una scheda di memoria. Ogni sessione di ripresa un capovolgimento e un nuovo fluire…
Allontaniamoci dall’armamentario tecnologico. Allontaniamoci anche geograficamente. Pensiamo per un istante all’aspetto meditativo dell’eremitaggio e confrontiamolo con quella feconda produzione proveniente dal Giappone, che sull’antico concetto filosofico di vuoto sta costruendo una delle più interessanti pagine della fotografia contemporanea, forse fra le poche capaci di contrastare l’horror vacui che ha per secoli caratterizzato l’arte figurativa Occidentale. Vuoto che è territorio sconfinato e spopolato, attesa, libertà mentale, predisposizione solipsistica e inviolabile al manifestarsi della meraviglia. Che è anche tecnico e tecnica. Che è pensiero riversato sulla composizione.
Non so, l’ho anticipato. Non so quanto romiti e randagi, poco importa se magnifici, siano per loro stessa natura certi fotografi. Ma so che a volte mi piace immaginarli così. Attivi in luoghi inaccessibili allo sguardo. Innamorati dell’invisibile. Soli, per scelta.

Innesti/Teatro: intervento di Laura Croce

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“INNESTI – PICCOLI INTERVENTI DI GIARDINAGGIO VISIVO” è una nuova rubrica, a cadenza variabile, che propone conversazioni “germogliate” sulla fotografia e sviluppate con persone e professionisti che operano in settori differenti.
A inaugurarla, oggi, è un’interlocutrice a cui sono legata da un’amicizia decennale e che apprezzo molto dal punto di vista professionale: Laura Croce, attrice, regista e didatta, che svolge un’intensa azione con l’associazione “Murmuris” fondata a Firenze, città dove vive dal 2004. “Murmuris” è una compagnia residente al Teatro Cantiere Florida che si occupa di produzione, formazione e organizzazione di festival e rassegne.

Laura Croce durante lo spettacolo "Né bocca, né naso, né occhi" - Produzione Straligut - regia di Fabrizio Trisciani
Foto © Costanza Maremmi, Laura Croce durante lo spettacolo “Né bocca, né naso, né occhi” – Produzione Straligut – regia di Fabrizio Trisciani

 

Laura, benvenuta in giardino! Oggi parleremo di fotografia e teatro.

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È curioso che questa tua sollecitazione arrivi proprio nel momento in cui sto studiando Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Un primo studio, che mi ha dato molta soddisfazione, ha visto la luce a ottobre nell’ambito delle manifestazioni per l’”Estate fiorentina” nelle sale del Museo900 di Firenze. Forse ti chiederai che cosa ha a che fare con la nostra conversazione. Intanto l’idea stessa di conversare che, fin dal titolo, domina lo scritto dell’intellettuale siciliano. Mi piace allora conversare con te. Viaggiare. Ricordare.
Si legge nel testo: «Avevo viaggiato, dalla mia quiete nella non speranza, ed ero in viaggio ancora, e il viaggio era anche conversazione, era presente, passato, memoria e fantasia, non vita per me, eppur movimento, e mi appoggiai al muricciolo, pensai a mio padre stanco, non Macbeth, non re, coi suoi occhi azzurri… e fui fiero di essere figlio di uomo».
Il lavoro su Vittorini, che nasce da una mia idea e di cui curerò la regia, andrà in scena nella sua veste definitiva il 9 marzo nell’ambito di “Materia Prima”, la rassegna di teatro contemporaneo che io con la mia associazione “Murmuris” curo al Teatro Cantiere Florida, la nostra casa a Firenze. Te ne parlo perché tutto prende le mosse dall’edizione del ’53 pubblicata da Bompiani che vede il testo corredato delle stupende fotografie di Luigi Crocenzi, 169 scatti che furono realizzati durante un invernale viaggio in Sicilia a fianco dello stesso Vittorini. Al di là della vicenda editoriale non troppo felice e nel merito della quale non ha senso entrare qui, le immagini sono servite a me, al mio collaboratore Francesco Migliorini e al video maker Jacopo Jenna per realizzare un video con cui l’attore Roberto Gioffrè ha interagito durante lo studio. Ma di più. Quelle fotografie hanno dato corpo alle mie sensazioni, mi hanno consentito di costruirmi un immaginario concreto, denso, reale, presente di quella Sicilia mai oleografica, mai scontata, che è la meta lirica di un viaggio, un ritorno faticoso e denso di rimandi simbolici non solo autobiografici.

Amo il lavoro di Luigi Crocenzi e in particolare la sua collaborazione con Vittorini, complessa e tormentata, come hai ricordato. Un autore chiave per la fotografia italiana, troppo spesso dimenticato o quantomeno non citato a dovere.

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Ecco quindi subito un primo esempio, forse banale e basilare, di interazione tra teatro e fotografia.
Voglio però dirti che la fotografia per me è quanto di più lontano possa esistere dal teatro. Immagino il tuo sgomento.

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Nessuno sgomento, Laura. Anzi molta curiosità. Questa rubrica va pensata e letta come un terreno su cui non è detto che la fotografia debba germogliare per forza.
Insomma, ti ho interrotto. Teatro e fotografia: per te nulla di più lontano…

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Quasi un ossimoro. Laddove il teatro è movimento, effimera esistenza, accettata dagli attori e dai registi e da tutti coloro che lavorano sul palco come tratto distintivo di questa arte, la fotografia invece è illusione di dominio del tempo, tentativo folle e icarico di fermare il fluire, di appropriarsi dello spazio, del qui e ora, di ricordare, di esserci ancora. So che non è così, so che anche la fotografia ha il suo tempo, ma non possiamo negare che l’attore accetta disperatamente la necessità di morire alla fine di ogni spettacolo, durante ogni spettacolo, mentre il fotografo allo scatto si illude di durare, di fermare qualcosa, di eternare l’istante.

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Vero, ma in parte è vero pure il contrario: per molti fotografi o almeno per loro stessa ammissione, i momenti dell’inquadratura e dello scatto vengono vissuti come un sottrarsi alla propria vita o comunque come attimi di sospensione simili alla morte dell’attore a ogni spettacolo, in favore di un pubblico.                                                                   In relazione a ciò che sostieni, immagino quindi che anche la fotografia di scena rappresenti un nodo non facile da sbrogliare. Una coabitazione forzata.

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La fotografia di scena, che è sicuramente la più immediata e semplice forma di interazione tra le due arti, in realtà è a mio avviso un esempio interessante di come le due forme espressive oltre ad arricchirsi reciprocamente, lottino anche tra di loro. Certo, esistono splendidi fotografi di scena e meravigliose, utilissime, fotografie di scena. Ma il rapporto non è così semplice. È noto a ogni regista il momento in cui il fotografo di scena ti chiede di cambiare le luci, quindi una parte fondamentale della messa in scena, sempre di aumentarle, per poter meglio esercitare la propria opera. È nota d’altro canto a ogni fotografo la necessità di trovare le giuste condizioni – le prove generali?- per infiltrarsi senza disturbare, senza mutare ciò che deve testimoniare. Insomma, la fotografia di scena mi è sempre sembrata una lotta disperata e destinata alla sconfitta tra il fluire e l’arrestare, una specie di risalita della corrente, un tentativo frustrato.

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Consideriamo un altro aspetto: lo spazio scenico che, nella tradizione, è delimitato da quinte, così come delimitata da bordi è la fotografia. In fase di progettazione di uno spettacolo, dalla stesura del testo alla scenografia, ciò che accadrà sul palcoscenico viene pre-visualizzato in forma di immagine?

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Sempre. Solo in questi termini, anzi. Spesso gli spettacoli nascono proprio e solo da una visione, dalla prefigurazione di un’immagine. Ogni regista, ogni autore procede in modo estremamente personale e differente, ma per me ciascun spettacolo è nato da un’immagine molto concreta e credo, in tal senso, di non essere una stranezza. Penso, cioè, che sia molto comune per un regista avere subito la chiarezza materiale di ciò che vuole dire. Il teatro è un’arte molto concreta, non si può alimentare senza visioni precise. Un attore non chiede «come devo dire questo? Cosa devo provare?», ma chiederà sempre «dove devo essere? Verso dove vado?». Cioè vorrà avere sempre chiara la sua collocazione fisica in uno spazio, vorrà quindi avere precise coordinate di concretezza, vorrà avere quindi davanti agli occhi l’immagine del regista.
Spesso infatti, direi sempre, si ricorre a bozzetti, più o meno elaborati e raffinati, utili a comunicare la propria immagine mentale. I registi hanno blocchi, quadernoni, che mostrano agli attori non subito fiduciosi, i quali iniziano a comprendere solo quando hanno chiari spazi, colori, posizioni, oggetti, la scena. Anche perché la memoria emotiva dell’attore è una memoria molto concreta, il corpo ricorda, meglio della mente spesso. Più precisa è l’immagine, più precisa sarà la scena, più semplice ed efficace sarà il lavoro dell’attore. Per questo non è facile adattarsi a spazi nuovi. Quest’anno, come attrice, ho avuto la fortuna di girare abbastanza con uno spettacolo che mi ha reso molto felice, Il migliore dei mondi possibili una riscrittura di Magdalena Barile dal Candido di Voltaire. In scena un delizioso giardinetto artificiale ospita quattro giardiniere, schiave volontarie della misteriosa Madame. Tutto molto piccolo, movimenti continui e minimi. Quasi un carillon. Spostandoci da Firenze, dove lo spettacolo è nato, a Verbania, Pescara, Milano, Parigi e altri luoghi, è stato bellissimo ma molto faticoso adattare il tutto a spazi molto diversi che quasi sempre non potevamo praticare molto prima di andare in scena. Questo per dirti quanto “l’immagine” sia fondamentale.
Per quanto mi riguarda, quando mi interessa un testo, un volto, un suono subito questo si traduce in un’immagine, anzi solo ciò che sa diventare immagine è per me la strada giusta da seguire nel processo creativo. Ma è molto difficile stabilire quale sia il percorso che seguono i registi, così come ormai è impossibile rintracciare la specificità del linguaggio teatrale, tanto che spesso lo spettatore si trova davanti alla fatidica domanda «questo è teatro?».
Ecco credo che questo accada solo al teatro e alla danza. Non c’è di fatto più alcun elemento che definisca il linguaggio teatrale in modo esclusivo. Non vi è lo spazio (teatro è ovunque, strade, piazze, fabbriche, musei…), non vi è l’uso della parola e meno che mai di un testo, non vi è il personaggio, né la vicenda… Insomma mi chiedi cosa sia per me la fotografia, ma, come vedi, difficile definire cosa sia il teatro.

Sulle definizioni con me sfondi una porta aperta, anzi, visto che siamo in un giardino immaginario, tagli un ramo secco. Non le vado cercando e non approvo né categorie o generi. Diversamente “Innesti” non avrebbe potuto prendere vita.
Direi quindi che possiamo tranquillamente proseguire.                                                               Ti sottopongo perciò una nuova considerazione: spesso i fotografi dimenticano di avere un corpo, che permette loro di muoversi nello spazio alla ricerca, per esempio, di punti di vista differenti. Io sostengo che come nel teatro corpo e voce sono in stretta correlazione, così anche nella fotografia corpo e sguardo debbano essere l’uno il prolungamento dell’altro. Mi piacerebbe capire se anche tu sei dello stesso avviso e cosa il teatro potrebbe insegnare, sotto questo aspetto, a chi pratica la fotografia.

Mi pare di leggere nelle tue parole la necessità di comprendere quanto il corpo del fotografo contamini il risultato, quanto da esso dipenda. Quanto l’azione legata all’esercizio tecnico della propria opera sia già opera essa stessa. Mi vengono in mente due aspetti. Uno legato all’opera fondamentale che il grande regista polacco Jerzy Grotowski ha mutuato dall’ultimo Stanislavski e ha poi codificato nella teoria delle azioni fisiche. Teoria che ha completamente rivoluzionato il teatro, fondandone appunto il linguaggio contemporaneo. In sintesi, l’attore non può e non deve tentare di ritrovare una verità psicologica per poter restituire l’autenticità di interpretazione, ma solo passando attraverso la rievocazione fisica delle sensazioni può ritrovare quell’immediata, e quindi più vera, verità emotiva. Il corpo teme, sente, esulta, con molta più immediatezza della nostra mente, quindi con maggiore autenticità.
Un corpo, come quello del fotografo in azione, che respira, che si concentra, che direziona attenzione e sguardo verso l’immagine che segue, inventa e intravede, non può non contaminare l’immagine stessa. È un corpo che danza, che rallenta, che determina un ritmo, che disegna spazi, un corpo vero, perché “distratto”, quindi libero, un corpo che non rappresenta, ma che presenta sé stesso, nel proprio semplice stare, coinvolto in un’azione, in una ricerca. Ricerca di luce.
Recentemente “Murmuris” ha tutorato, nell’ambito del progetto di residenza che sta portando avanti a Firenze, il giovane gruppo MUD composto da quattro danzatrici. Il loro lavoro, frutto appunto della residenza negli spazi del Teatro Cantiere Florida, ha debuttato a “Zoom Festival” con il titolo di Small talk. Tra le idee che le giovani artiste hanno avuto c’è stata anche quella di provare a ricostruire la semantica di un corpo con smartphone. Hanno quindi, eliminando naturalmente l’oggetto tecnologico, ricostruito i movimenti che inconsapevolmente il nostro corpo compie mentre cerca campo, controlla la suoneria, legge un messaggio, si sposta nello spazio guardando un video ecc. Il risultato è stato sorprendente. Una coreografia inconsueta. Te l’ho raccontato perché vorrei divertirmi a immaginare lo stesso procedimento per i fotografi. Un coreografo trarrebbe forse una sequenza di movimenti molto interessanti togliendo al “corpo fotografante” il suo strumento e provando a ricostruire azioni che probabilmente si rivelerebbero estremamente intriganti una volta svincolate dalla loro destinazione concreta.

Un po’ ciò che propone Tina Merandon nei suoi laboratori destinati ai fotografi…

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Il teatro potrebbe insegnare solo una maggiore consapevolezza. Assumere questo aspetto potrebbe essere determinante per il fotografo. Sapere di avere un corpo e usarne respiri, impulsi, direzioni, potrebbe fortemente mutare la qualità di ciò che si fa. E vale per qualsiasi forma espressiva. Tranne attori e, ovviamente danzatori, le altre arti sembrano ignorare la fisicità dell’artista, poiché la cultura occidentale ha segnato un confine pernicioso tra corpo e anima/mente, che ha reso fortemente disorganico il rapporto che ogni artista e intellettuale ha con il proprio corpo. Il fotografo è innanzitutto un corpo che cerca, uno sguardo rabdomante. Questo per parlare di verità.

Parliamo invece di finzione, termine che fa tremare i puristi e che invece mi affascina molto…

Il tema della finzione è ovviamente cruciale per il teatro. In teatro non si fa che fingere. Per questo è tutto assolutamente vero! È un paradosso. Il paradosso dell’attore non a caso è il titolo di uno dei saggi più importanti che consiglierei. Diderot nel breve testo spazza il campo dagli equivoci legati alla supposta necessità dell’attore di “sentire” veramente tutte le emozioni che vuole rappresentare. E anzi, di più. Non solo per il filosofo francese l’attore non può veramente sentire, ma non deve! Il sentire vibrando e patendo sarebbe solo deleterio oltre che inutile. Più un attore è freddo e razionale e meglio riuscirà a dominare il testo attraverso la tecnica e ad essere allora veramente credibile. Solo così lo spettatore potrà davvero emozionarsi e il teatro, secondo Diderot, avrà assolto la sua finalità. Non l’attore quindi deve piangere, amare, gioire, tremare. Ma lo spettatore. Divertenti gli aneddoti dei grandi attori che, mentre sembra dalla platea che stiano soffrendo in tragedia, in realtà si sussurrano, di nascosto, il nome del ristorante in cui andranno a mangiare una volta chiuso il sipario. Ma si sa, Diderot voleva innanzitutto affermare illuministicamente il primato della ragione sul sentimento.
Brecht invece negli Scritti teatrali, volume che consiglierei a chiunque, ritorna sul problema verità/finzione nel teatro, e lo fa, a mio avviso, nel modo definitivo. Lo spettatore non deve credere che sia vero ciò che accade sulla scena, deve semmai credere che sia vero ciò che accade nel mondo a cui il teatro si ispira. La scena infatti non è che un riflesso della realtà e la deve riflettere per denunciare ingiustizie e violenze affinché il pubblico sappia e agisca. Quindi non lacrime e patimenti poi dimenticati nella catarsi dell’ultimo applauso una volta purificati dalle passioni che gli attori avranno in noi scatenato, ma un buono spettacolo dovrebbe generare riflessione, non immedesimazione. Per ottenere questo, per impedire appunto che il pubblico aderisca emotivamente a ciò che vede sul palco sgravandosene all’uscita dalla sala, Brecht inseriva atti di “straniamento” cioè gesti, azioni, canzoni, frasi, del tutto incoerenti con la messa in scena per svegliare il pubblico ed evitare l’adesione emotiva, favorendo invece una presa di coscienza razionale, che dovrebbe portare a un’azione.
Claudio Morganti, autore, attore, regista genovese che ha cambiato la storia del teatro italiano grazie al suo lavoro negli anni ’70 e ’80 con Alfonso Santagata, in un memorabile “manifesto” traccia la differenza tra Teatro e Spettacolo, a favore del primo. Tra le molte affermazioni interessanti ve n’è una opportuna per noi qui: «lo spettacolo finisce quando si esce dalla sala, il Teatro inizia quando si esce dalla sala». Solo a sipario chiuso inizia il vero lavoro del teatro, che è quello di cambiare il mondo in cui viviamo attraverso le persone. Come diceva Brecht. Il Teatro non può essere consolatorio, non può essere intrattenimento. Quindi il problema di accettare il piano della finzione per un attore quasi non si pone. Davanti a un’altra opera d’arte non si chiederà mai se è simulazione. Lo è, sempre. E menomale. Inoltre c’è un altro aspetto. Più banale, utile nella didattica del teatro. L’illusione della finzione consente a un attore di lasciarsi andare disvelando se stesso, mostrando le più profonde ferite, gli abissi personali, le fragilità, le debolezze, le manie, le povertà, i propri vuoti, le propri ingenuità. Senza difesa. Non ce n’è bisogno. Tanto si sta solo facendo finta, vero?
Comunque la questione del vero/falso non si pone. Non si deve porre. Mi chiedi se l’attore sia disposto a credere nella finzione. Non posso che rilanciare chiedendo cosa si intenda per finzione. Artificio? Ricostruzione della realtà? Svelamento dell’illusione? Portare alla luce i meccanismi simbolici che la realtà cela?
Ricordo che due anni fa mentre stavamo preparando Giusto la fine del mondo di Jean-Luc Lagarce (un bellissimo testo, oggi noto anche grazie al recente film di Xavier Dolan) ci siamo molto interrogati sull’immagine di famiglia. Proprio nel senso di composizione, di inquadratura. Dai ritratti di famiglia rinascimentali in poi. Fino ad approdare poi a Hopper e ai suoi quadri di donne, alle sue soglie. La soglia ci interessava, la luce che c’è nel mezzo, nel non essere né di qui né di lì.

Un lavoro di ricerca che è debitore alla storia delle immagini, indubbiamente. La fotografia applicata ai gruppi familiari, poi, abbraccia applicazioni che si spingono fino alla fototerapia. Mi interessa approfondire l’argomento.

Allora agganciamo la famiglia al concetto di vero: proprio in quei giorni a Palazzo Strozzi qui a Firenze veniva ospitata una mostra per me molto bella dal titolo Questioni di famiglia. Vivere e rappresentare la famiglia oggi. In particolar modo fummo attratti (parlo al plurale perché penso a noi attori, eravamo cinque in scena, e alla regista, allo scenografo, a chi ha pensato per noi il disegno luci…) dal lavoro di due artisti Trish Morrissey e Hans Op de Beek. Entrambi esponevano ritratti di famiglia particolarmente intriganti. La prima immagini solari, sempre in spiaggia, di famiglie allegre, in vacanza. Belle, vere. il secondo invece immagini più spettrali di adulti, anziani con palloncini bianchi intenti, forse, a festeggiare. Ma il vero interesse di questi due lavori stava nel fatto che le immagini della Morrissey – lo si capiva solo in un momento successivo –  ritraevano persone che famiglia non erano, quindi estranei messi insieme a caso. L’effetto straniante era straordinario e ti obbligava riflettere sull’autenticità del concetto di famiglia e sulla sua reale naturalezza. Per Op de Beek invece le immagini composte si alternavano a quelle in cui comparivano anche le truccatrici, costumiste che allestivano il grottesco set da farsa felliniana. E anche qui l’irrompere della finzione non diventava incidente o diversivo ma, al contrario, vero senso dell’opera, direzione di ricerca e chiave della comprensione.

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Chiarissimo. Cambiamo registro e chiudiamo con un ultimo ambito di riflessione: Jean Baudrillard, nel 1987 in L’altro visto da sé scriveva: «L’oscenità comincia quando non c’è più spettacolo, non c’è più scena, non c’è più teatro, quando tutto diventa di una trasparenza e di una visibilità immediata, quando tutto è sottoposto alla luce cruda e inesorabile dell’informazione e della comunicazione. Non siamo più nel dramma dell’alienazione, siamo nell’estasi della comunicazione. Osceno è tutto ciò che mette fine a qualsiasi sguardo, a qualsiasi immagine, a qualsiasi rappresentazione».
Penso che la citazione del sociologo francese, pur se datata, sia ora spinta alle sue estreme conseguenze. Esiste ed è individuabile, secondo te, un punto di non ritorno, dal punto di vista etico, oltre il quale teatro e fotografia non dovrebbero spingersi, preservandosi dall’oscenità?

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Come porre il limite dell’oscenità? Voglio dire dove si può trovare il confine tra ciò che è giusto mettere in scena e ciò che diventa offensivo, per chi? Quando? Senza pensarci troppo ti direi che non c’è nulla di osceno e che tutto è lecito in scena e in fotografia. Ma lo dico solo perché mi risulta davvero impossibile capire cosa invece potrebbe essere da censurare. Ci sono stati spettacoli con atti sessuali sul palcoscenico, spettacoli con cadaveri, con animali morti o morenti o uccisi. Ricordo il famoso spettacolo di Rodrigo Garcia che consisteva nell’agonia di un astice amplificata che moriva nella pentola bollente. O –  dello stesso regista – il pesciolino frullato vivo.

Intanto mi fai tornare alla mente quando, insieme, assistemmo a XXX, il tanto discusso spettacolo dedicato a De Sade, portato in scena dalla “Fura dels Baus”. La questione è davvero spinosissima, soprattutto in un contesto sociale/globale che si è fatto pericolosamente e ciecamente censorio.
Devo però ammettere che quando si parla di animali (conoscendo diversi esempi che coinvolgono il teatro così come le performance artistico-contemporanee) la mia visione non antropocentrica d’istinto stigmatizza il loro coinvolgimento coatto nelle opere umane. Ma comprendo bene il tuo ragionamento e intuisco ove intende approdare.

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Prendiamo allora a campione i tanti spettacoli sconvolgenti di Romeo Castellucci regista della “Raffaello Sanzio Societas”, non ultimo quello intitolato Sul concetto di volto nel figlio di Dio durante il quale un persistente odore di feci ammorbava la platea. In scena un’enorme riproduzione del Cristo di Antonello da Messina. Andato in scena Parigi è stato bloccato da una compagine di cattolici integralisti che non volevano vedere accostato il volto di Cristo a questa materia così bassa. Io penso che veramente sia impossibile tracciare un confine e capire dove fermarsi. O meglio un limite c’è, ed è di senso. Qual è il senso di queste operazioni? Cosa voleva dire Castellucci? L’ha detto? Sì? Bene allora poteva farlo. Se nelle maglie di questa definizione vaga, imprecisa, soggettiva, inutile in definitiva, passeranno anche cialtroni in cerca di notorietà, beh pazienza. Meglio regalare qualche attimo di notorietà a una nullità che perdere per la pruderie imbarazzante di alcuni, occasioni di confrontarci con opere d’arte sconvolgenti.

Grazie Laura: una chiusura che non fa sconti e non schiva il confronto. Proprio come mi auguravo. Lo spazio di un blog non è smisurato, ma mi pare che questo primo intervento abbia smosso il terreno e possa far crescere qualche idea.

Lo spero. Penso che questa conversazione sarebbe potuta durare molto di più perché molto ancora ci sarebbe da dire. Ma sono molto felice però di essere stata la prima di quella che ti/vi/ci auguro sia una lunga serie di vitalissimi innesti!