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Senza fine

 

Il simbolo dell'infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo
Il simbolo dell’infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo

Nei primi anni Duemila, ora non ricordo con precisione quando, fui inviata a Torino insieme con altri professionisti a due giornate (gratuite) di lettura portfolio organizzate dalla Fondazione italiana per la Fotografia. In quell’occasione, conobbi un vero gallerista illuminato, Raymond Viallon, titolare a Lione dello spazio “Vrais Rêves”. Ci trovammo subito in sintonia e – seduti allo stesso tavolo – invitammo una signora (forse signorina) cuneese, dall’abbigliamento gozzaniano, a mostrarci il suo lavoro, dopo aver notato che tutti gli altri colleghi si rifiutavano di prestarle la dovuta attenzione. Il motivo di tale rifiuto era evidente: la malcapitata teneva tra le mani un blocco di più di trecento fotografie a colori formato cartolina. Non un portfolio, quindi, ma una mole di immagini davanti a cui era facile arrendersi. Io e Raymond non demordemmo e la sorpresa ci ripagò della pazienza quando potemmo finalmente vedere di cosa trattassero le fotografie. Il soggetto era unico: lumache. Lumache che abitavano il suo giardino. Lumache fotografate per oltre un anno, con particolare attenzione al momento dell’accoppiamento. Lumache che avrebbe continuato a fotografare senza darsi una scadenza temporale.
Personalmente, non riesco a sottrarmi al fascino che esercitano alcune ricerche ossessive e spiraliformi e questo aneddoto mi offre lo spunto per una riflessione assai complessa: quando un lavoro fotografico può definirsi infinito? Deve contenere una quantità numerica straordinaria di immagini, ovviamente coerenti fra loro? È necessario che accompagni l’autore per tutto il corso della sua esistenza? O è sufficiente che contenga concettualmente l’idea di infinitezza?
Per tentare di rispondere nel breve e non esaustivo spazio di un blog, inizierò con un paio di esempi estrapolati dalla mia biblioteca.
Il primo ha una copertina monocromatica in tela verde ed è Atlas, di Gerard Richter, acquistato a Prato in occasione della mostra antologica del 1999, volume che mai mi stanco di consultare e che raccoglie 600 immagini tra fotografie, schizzi e ritagli, collezionati nel corso di una consistente porzione di vita. Un’opera in fieri, giustamente definita enciclopedica dai curatori dell’esposizione, ove progettualità, intimità familiare e stralci di informazione si mescolano producendo quello straniamento che solo le grandi imprese intellettuali dal sapore borgesiano sanno provocare.
Il secondo, nuovamente foderato in tela, ma questa volta blu, è un cofanetto che mi è molto caro e che custodisce le schede di Mnemosyne/Atlante, l’ultimo monumentale studio di Aby Warburg, terminato nel 1929 con la morte del suo autore e presentato al pubblico italiano dopo ben settant’anni, a Siena, nel 1998. Studio strabiliante, in grado di coprire la storia dell’iconografia dall’antichità alla modernità e – se esposto – fruibile attraverso stampe fotografiche in bianco e nero montate su pannelli di fattura artigianale. Non una puntuale duplicazione o catalogazione di oggetti artistici e documenti (poiché le catalogazioni, anche se ciclopiche, hanno valenze diverse, come ci insegnano i Becher), ma una densa sequenza immagini che dialogano per accostamento e forniscono combinazioni pressoché illimitate.
Abbandoniamo quindi i progetti in fieri, già accreditati di per sé ad appartenere alla sfera dell’infinito.
Proviamo piuttosto a circoscrivere i numeri e fermiamoci a una cifra comunque importante: cinquecento. Cinquecento sono i ritratti fatti da Alfred Stieglitz alla moglie Georgia O’Keefe e altrettanti i ritratti close up di anonimi newyorkesi scattati dal giapponese Ken Ohara negli anni 60 e pubblicati nel 1970 in un libro dal titolo emblematico: One.
Quale dei due campioni si avvicina di più all’idea di infinito? Opterei senza troppi dubbi per Ohara, mantenendo le riprese di Stieglitz nell’ambito dell’ossessione sì, ma de-finita, di tipo narrativo. La O’Keefe non è sovrascrivibile al suo proprio volto che mostra progressivamente i segni del tempo, né sostituibile con altre figure. Mentre le facce che compaiono in One, sono idealmente moltiplicabili per una quantità smisurata di volte. Non raccontano, non rappresentano. Semplicemente sono e si equivalgono.
Equivalere, essere alternabili: ecco l’azione che, al di là della quantità di immagini, può suggerire il concetto di infinito. Qui Stieglitz è legittimato ricomparire con i suoi cieli, gli Equivalents –  appunto – ed esser seguito – nomen omen – dai 365 cieli dell’Infinito di Luigi Ghirri o dai Seascapes di Hiroshi Sugimoto, statiche porzioni di mari reciprocamente intercambiabili e per nulla identificabili dalle indicazioni geografiche di cui sono corredati.
Senza fine, benché declinato in segmenti differenti, che riescono a vivere autonomamente, può inoltre essere l’oggetto di una ricerca: basti pensare alla produzione di Cindy Sherman interamente e incessantemente dedicata all’autorappresentazione e la messa in scena della donna in genere. Stesso discorso può valere per la produzione di Joan Fontcuberta, tutta pensata in forma di antidoto critico contro la presunta veridicità della fotografia, così come può valere per l’opera omnia di John Hilliard, da sempre incentrata sull’ambiguità e la peculiarità strutturali al mezzo fotografico.
Ricapitolando, alcuni lavori sono imponenti per il numero di materiali che li compongono, ma non “appartengono” all’infinito. Altri invece infiniti lo sono realmente, poiché impegnano una vita intera immutando la loro condizione di progetti in divenire. Altri ancora lo sono poiché, pur non vantando insiemi rilevanti di scatti, fanno leva sull’intercambiabilità delle fotografie, sul loro procedere per quantità teoricamente infinite.
E mentre io termino questo articolo, sono certa che, in un orto delle Langhe, una donna continua a curvarsi sul terreno con una fotocamera, per inquadrare al meglio il lento muoversi delle sue lumache.