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Imago corporis

© Efrem Raimondi, "Istantanea - nuca di Laura Manione", Cambiano, 2016
© Efrem Raimondi, “Istantanea – nuca di Laura Manione”, Cambiano, 2016

Minor White (1908-1976), uno fra i fotografi più incisivi del Novecento, dichiarava di provare «spavento per l’immagine del suo paesaggio interiore». Un’affermazione forte, ove il termine spavento può tradurre tanto i concetti di paura, sbigottimento e turbamento, quanto quelli di eccesso o di enormità.
Ma non è dell’eclettico White che voglio scrivere oggi. Voglio invece scrivere di spavento e interiorità, ragionando sul corpo. Sul corpo che tutti ci portiamo appresso e che viene quotidianamente scandagliato da strumenti ottici che lo riproducono per segmenti.
In effetti, è praticamente dalla messa a punto della fotografia che ogni individuo deve fare i conti con due tipologie di immagine legate alla propria fisicità: quella esteriore, che ne tratteggia i lineamenti, espressioni, perfezioni e imperfezioni e quella interna, non interiore – mi perdonerà White – che ne rivela lo stato di salute.
Entrambe ci turbano (non ci si sente a proprio agio davanti a un obiettivo), ma una in particolare ci fa paura o quantomeno ci lascia stupefatti. Mi riferisco, ovviamente, all’immagine diagnostica. Se già nel 1896 Ludwig Zhender era in grado di produrre una visione ai raggi X del corpo umano, non possiamo dimenticare che oggi, grazie agli strumenti ecografici che seguono l’evoluzione di un feto, si viene all’occhio ancor prima di venire al mondo.
Insomma, la medicina, da sempre in stretto connubio con la fotografia, è in grado di raccontare cosa ci accade dentro, restituendoci una serie di proiezioni inconfutabili e traducibili solo con l’ausilio di specialisti in grado di decifrarle.
Quando, da “auto-analfabeti”, ci sottoponiamo alla diagnostica per immagini – sottoporsi è un verbo esplicitamente passivo – ci assoggettiamo, di fatto, a un’ansiogena seduta fotografica dal risultato incerto. Esattamente come accade per una ripresa di ritratto in studio, siamo invitati ad assumere una postura o a stare immobili, a trattenere il respiro, persino ad assumere un’espressione (chiudere o spalancare gli occhi, aprire la bocca o stringere i denti, ecc). In alcuni casi non vi è neppure una richiesta verbale da esaudire e lasciamo che le nostre membra anestetizzate siano liberamente manovrate da altri. Inoltre, per poter abbandonare la sgradevole sessione fotografica, dobbiamo attendere il responso del radiologo o dell’ecografista riguardo la leggibilità dell’immagine ottenuta, leggibilità a cui è indissolubilmente legata la stesura del referto.
A noi non resta che attendere e sperare di portare a casa un’immagine rassicurante, un attestato che ci permetta di proseguire nella vita, ovvero che non stravolga e interrompa la nostra progettualità.
Tali immagini, una volta assolto il loro compito, sovente sono conservate e archiviate assai meglio delle fotografie scattate con una normale fotocamera. Negli anni ci raccontano una storia invisibile a occhio nudo, ma pur sempre una storia, che è solo nostra, che non può mentire.
Aggiungo, per esperienza personale, che chi esegue gli accertamenti è ben lieto di chiacchierare di fotografia, di sentirsi in qualche modo un “collega”. Pensiero legittimo: la capacità di interpretare l’immagine che duplica una realtà invisibile a occhio nudo è equiparabile alla capacità di decifrare una “normale” fotografia. E non è raro o fuori luogo che gli stessi specialisti rivelino di saper rintracciare un’estetica intrinseca all’immagine diagnostica.
Vogliamo voltare le spalle a questa gamma di immagini? Non considerarle fotografie? Commetteremmo un errore di natura principalmente filologica. Lo commetteremmo soprattutto difendendo la fotografia come documento, visto che un referto medico è un documento a tutti gli effetti.  Lo commetteremmo giudicandole straordinarie, quando straordinarie possono essere le apparecchiature, ma ordinario continua a essere il soggetto, ovvero il corpo umano.
Va ancora aggiunto che, mentre medici e paramedici hanno ampliato la loro osservazione accogliendo il concetto di bello nell’analisi di un esame clinico, fotografi, artisti o autori, chiamateli come più vi piace, hanno, al contrario, incluso nelle loro ricerche la componente squisitamente anatomico/organica della corporeità, conducendola, a partire dagli anni 30, verso il limite della ripugnanza. L’elenco sarebbe davvero troppo lungo e non esaustivo, ma, per citare qualche esempio, dal morigerato duplicato del lenzuolo sindonico scattato da Secondo Pia nel 1898, si passa a nomi quali Jaques André Boiffard, Raul Ubac, Hans Bellmer. Dalle testimonianze fotografiche delle performance di body art, si giunge ai contemporanei Paolo Gioli, Dieter Appelt, Floris  Neusüss, Peter Witkin, Andres Serrano, Geneviève Cadieux, Cindy Sherman.
In conclusione, devo ammettere che una contaminazione così esplicita durevole mi supporta e mi consola, poiché abbatte per l’ennesima volta il concetto di genere. Esistono, infatti, innumerevoli applicazioni della fotografia in grado di dialogare su piani che non dovrebbero restare separati.
E – nel caso specifico – se è vero, come recita il titolo di un libro di Banana Yoshimoto, che Il corpo sa tutto, allora è vero che esso sa anche impartirci una buona lezione di fotografia.

 

ps. ringrazio Efrem Raimondi per aver scattato un’istantanea alla mia nuca e per avermi permesso di utilizzarla a corredo di questo articolo.