Archivi tag: tempo

Darsi tempo

Chiara Ferrin, Senza titolo, 2013
Chiara Ferrin, Senza titolo, 2013

Gaston Bachelard, ne La poetica dello spazio, introduce il concetto di “estetica del nascosto” o “fenomenologia del nascosto” con questa breve ma acuta osservazione: «un cassetto chiuso è inimmaginabile. Esso può essere solamente pensato. E per noi, il cui compito è descrivere ciò che si immagina prima che sia conosciuto, ciò che si sogna prima di verificarlo, tutti gli armadi sono pieni».
Desidero immeritatamente prendere in prestito le parole scritte dal filosofo francese nel 1957, per applicarle a un aspetto per nulla marginale del fare fotografia o fare arte con la fotografia, come più vi piace. E modulando il suo pensiero sulle mie intenzioni – con sentite scuse ai puristi della fenomenologia – aggiungo che a ogni cassetto o armadio pieno corrispondono una parete, un libro, una pagina web vuoti.
Prima dell’avvento di Internet e dei social, i cassetti erano pieni fotografie o lavori fotografici. Dimenticate o volontariamente tenute sotto chiave, le immagini vivevano lunghi periodi di reclusione, nascoste allo sguardo non solo di un ipotetico pubblico, ma anche del loro stesso autore.
Premetto, onde evitare fraintendimenti, che non credo a chi sostiene di non sentire l’esigenza di mostrare i propri lavori, condannandoli alla clausura perenne. È vero, si fotografa per se stessi, ma è altrettanto vero che la diffusione e il confronto con lo spettatore restano una parte imprescindibile dal percorso espressivo.
Inoltre, ammetto senza remore che grazie ai social ho potuto stabilire contatti umani e professionali ormai irrinunciabili.
Fugato il panegirico dei bei tempi andati, vorrei comunque azzardare una riabilitazione del “cassetto chiuso”, sottolineandone l’utilità.
Non tutto ciò che si produce è subito pronto per essere mostrato. Non tanto poiché potrebbe necessitare di aggiustamenti non percepibili nell’immediato, quanto poiché chi lo ha prodotto potrebbe sentire – più o meno razionalmente  – che non è il momento.
Se non si fotografa per commissione, non si è fotogiornalisti o se la simultaneità non è una scelta concettualmente significativa, è salutare  – perfino salvifico – non farsi fagocitare da tempi sclerotici e indotti.
Oltre che alle sue fotografie, infatti, un autore dovrebbe corrispondere in egual misura al momento in cui decide di mostrarle: in altre parole, oltre che affannarsi sul dove, è bene che sappia valutare il quando.
Se dunque spazio e tempo sono inscindibili, lo spazio idoneo a preservare le immagini in attesa di un tempo “maturo” potrebbe essere il cassetto.
Giunti fin qui, varrebbe la pena di porsi alcune domande: è più sopportabile non ritrovarsi su pareti, pagine, siti o bacheche facebook o non essere presenti al e nel proprio lavoro? A chi si decide di rendere conto? Agli altri – chi? – o a se stessi?
L’attesa non è necessariamente sinonimo di occasione perduta. Forse ciò che manca ai lavori che non sono pronti, è davvero l’azione del tempo. Di un tempo che, depositandosi, conferisca struttura e – perché no? –  plus valore estetico a ciò che è ancora debole, non completamente formato. Penso che un distacco temporaneo tra il fotografo e le sue fotografie sia funzionale a entrambi e permetta loro in qualche modo di ritrovarsi, di riavviare una conversazione condotta con maggiore consapevolezza.
A tale proposito mi pare particolarmente incisiva una dichiarazione rilasciata da Mario Giacomelli a Francesca Vitale per la rubrica radiofonica L’occhio magico mandata in onda su Rai Radio 3 il 20 gennaio del 2000: «L’immagine prende a vivere dal momento che tu la interroghi, che non è vero che è morta, lei è muta, lì, ha bisogno di dialogare con te ma ha bisogno che tu dialoghi con lei, perché lei ha un’altra educazione cioè, è lì, attenta, ha aspettato chissà quanti anni la tua attenzione e comincia a vivere dal momento che tu la interroghi».
Ora, essendo refrattaria alle regole e ancor più ai dogmi, non voglio certo sostenere che tutto necessiti di una lunga sedimentazione. Ma, ribadisco e semplifico, vi sono neonati che hanno bisogno di un periodo di incubazione per esser certi di sopravvivere nel mondo esterno.
Penso infine che questa breve riflessione non debba limitarsi agli autori, ma possa essere estesa pure a coloro che, come me, di fotografia si occupano e che sembrano essere perennemente in preda a una frenesia di cui mi sfugge il senso.
Sarà certo un mio limite, ma reputo che non potersi più appoggiare alla citazione di Bachelard, ovvero non riuscire più a immaginare armadi pieni, caldeggiando invece un’interrotta condivisione di immagini in tempo reale, sottragga fascinazione e  – soprattutto  – sostanza a ciò che sfila sotto i nostri occhi. Se, come sosteneva Giacomelli, pur con un’intenzione quasi animistica che non mi appartiene, un’immagine sa attendere anni in cambio di attenzione, allora anche chi è chiamato a valutarla deve accettare tempi più dilatati, adeguandosi al ritmo produttivo dell’autore, senza mai forzarlo.
La fretta dettata dalla smania di visibilità, sia essa appartenente a un autore o a un curatore, non mi convinceva in passato, quand’era assai rara, né mi convince ora.
Provo a comprendere, ma alla fine mi ritrovo sempre a fare i conti con lo stesso quesito: cosa mi posso aspettare da chi non sa aspettare?

Ssssst…

© Stefano Ghesini, senza titolo, 2008
© Stefano Ghesini, senza titolo, 2008

In un interessante saggio intitolato “Quasi niente, piùchepianissimo”, Carlo Migliaccio, docente di filosofia e musicologo, individua tre modalità del silenzio musicale: «un silenzio ante, un silenzio intra e un silenzio post», riprendendo fra l’altro il concetto espresso da Thomas Clifton in The poetics of Musical Silence (1976) secondo cui «c’è una differenza tra il tempo che un brano occupa e quello che un brano presenta».
Il silenzio ante prepara l’esecuzione del brano, è raccoglimento, respiro che precede l’esplosione di note.
Il silenzio intra riguarda invece le pause inserite nello spartito, segni grafici che hanno una specifica funzione linguistica al pari della punteggiatura in letteratura.
Il post è l’attimo di sospensione, quasi permeato di sacralità, che anticipa l’applauso. Un attimo in cui tutto ciò che si è ascoltato viene compresso per poi sciogliersi in emotività.
Penso che la stessa tripartizione valga per la fotografia.
Prima dello scatto, ho visto diversi fotografi ammutolirsi, estraniarsi, perdersi in un istante di vuoto quasi meditativo, istante ove è impossibile ogni forma di comunicazione. È più di una sospensione: è un distacco temporaneo dalla realtà, dalla vita vissuta. Non è assenza, è una dimensione ipnotica, spezzata solo dal rumore dell’otturatore.
In un secondo momento, come accade per la partitura musicale, il silenzio assume una sua valenza grammaticale tutta compresa all’interno dell’inquadratura. Silenzio fatto di spazi come “virgole visive” che s’insinuano nella composizione, permettendo all’occhio di compensare riposo e sollecitazione.
Ante: il fotografo.  Intra: la fotografia. Post: lo spettatore.
Spettatore che, passando da un’immagine all’altra, durante un’esposizione o sfogliando un libro, in attesa di esprimere un parere, fissa dentro di sé, per un periodo variabile, le sensazioni assorbite durante la visione. Silenzio che non va confuso con il tacere reverenziale nei confronti dell’autore, sul quale non voglio soffermarmi, ritenendolo impositivo e quindi privo di creatività interpretativa.
Va da sé, infatti, che esiste una sostanziale diversità tra l’intimazione del tacere e il silenzio introspettivo, che permette piuttosto di elaborare dentro cosa abbiamo visto fuori.
Mi piace allora includere nella categoria del post, non solo gli intervalli verbali, ma pure gli intervalli dello sguardo e citare a tal proposito Sandro Bini, fotografo e direttore dell’associazione culturale “Deaphoto” di  Firenze, che, durante una conversazione, mi disse: «Quando esci da una mostra, fermati e chiudi gli occhi. Visualizzerai una sola immagine: la tua preferita».
Davvero, come sosteneva Clifton per la musica, anche nella fotografia c’è differenza tra il tempo che un’immagine occupa e quello che un’immagine presenta.
Tempo che ci sfuggirebbe se non fosse costellato di silenzi ante, infra e post. Ai quali ne farei seguire un quarto: silenzio ab libitum, ovvero “a piacere”, perché nessuno può vietarci di trattenere interiormente e finché ne avremo voglia, ciò che un’immagine ci ha comunicato e che per noi resta misteriosamente ineffabile.

 

Nota a margine: il citato saggio di Carlo Migliaccio, è inserito nel libro, a cura di Nicoletta Polla Mattiot, Riscoprire il silenzio – Arte, musica, poesia, natura fra ascolto e comunicazione, BCDE editore, Milano, 2013

Nella fotofattoria

015_gabriella_martino_uovo
© Gabriella Martino, dalla serie: “Il nido del cuculo”, 2016

Saranno le vetrine stipate di uova di cioccolato e pulcini di peluche, sarà l’orrenda mattanza di agnelli e capretti in vista dell’abbuffata pasquale, ma il mio pensiero in questi giorni è tornato spesso al contributo coatto che gli animali hanno fornito alla lunga stagione della fotografia.
Così ho provato a immaginare, con un certo imbarazzo per il genere umano, la fattoria ideale del fotografo tra Ottocento e Novecento.
Andiamo con ordine: per giocare alla vecchia fotofattoria occorre spazio.
Anzitutto è necessario costruire un pollaio: era il 1847 quando venne messo a punto il negativo per il processo all’albumina e circa il 1850 quando comparirono i primi positivi. La chiara d’uovo si dimostrò subito un ottimo legante che, mescolata allo ioduro di potassio e al cloruro di sodio, stesa su una lastra e poi immersa in un bagno di nitrato d’argento, dava origine alla formazione di uno strato di cloruro d’argento sensibile alla luce. Ironia della sorte, per restare in tema di pennuti, l’immagine era poi sviluppata in una soluzione di acido gallico. Si stima che in quegli anni, in una fabbrica di Dresda, si utilizzassero quotidianamente circa sessantamila uova per scopi fotografici. Lo stesso accadeva negli Stati Uniti, tanto che l’acuto Oliver Wendell Holmes, nel 1863, dopo la visita a uno stabilimento, a proposito degli sfortunati embrioni, scrisse: «diecimila nascituri, che attendono di cedere il loro prodotto incompleto, sono destinati a perire anonimi al solo servizio del sole, prima che il fato abbia deciso se dovranno essere galli o galline».
Accanto al pollaio, dovrà esserci una conigliera e poco più in là, una vasca per i pesci: il lasso di tempo che andò il 1851 e il 1861 fu il decennio del collodio umido e secco e delle gomme bicromatate. Le colle di pelle di coniglio e di pesce costituivano le gelatine ideali, o “pappe” come le definisce Ando Gilardi nella sua Storia sociale della fotografia, per creare le emulsioni a cui aggiungere gli agenti chimici o semplicemente per trattare le carte troppo acide o “flaccide”. Va detto che quest’ultima operazione è praticata ancora oggi da chi stampa a inchiostro e vuol ottenere supporti con discutibili effetti d’antan.
Posiamo ora la prima pietra per edificare una stalla capiente: nel 1871 Maddox affinò il procedimento alla gelatina al bromuro d’argento, che tuttora sopravvive per quanto concerne l’analogico, dove per gelatina s’intende un brodo cucinato con ossi di animali. Torniamo al gioco, dunque: durante la macellazione è inoltre d’obbligo tenere da parte il fiele di bue, che fu utilissimo per la coloritura a mano dei positivi monocromi. Mentre verso sera, al momento della mungitura, una scodella va conservata per la fotografia: lo zucchero di latte, infatti, che fu adoperato in alcuni casi per la riduzione dei sali d’argento durante il fissaggio, si otteneva proprio lasciando evaporare il siero caseario.
Il fotofattore più eccentrico potrà poi dotarsi di un alveare e provare così la tecnica della melotipia: tecnica d’inizio Novecento a base di miele e argento, che ebbe però scarsissimo successo.
D’estate, nelle brevi vacanze al mare, brevi perché in campagna c’è sempre da fare, pescare qualche seppia sarebbe di grande utilità: in epoca passata, il “talco di seppia” ricavato dal contenuto essicato della vescica del mollusco serviva sia per il fotoritocco, sia per la preparazione delle stampe ai pigmenti.
Ora, trascorsi gli anni, tutti questi fototipi, contenendo sostanze di origine animale, sono diventati dei veri e propri banchetti d’onore per microrganismi affamati. E siccome la fotografia non è eterna, paesaggi, palazzi, i nostri volti sorridenti e i ricordi di una vita potrebbero essere fagocitati (e in parte già lo sono stati) da questi esserini invisibili, in una sorta di nemesi e involuzione darwiniana.
Del resto si sa la sopravvivenza è una lotta e la bellica vicenda umana cominciò con un coltello e forse terminerà con un attacco batteriologico.
Ricreazione finita. La fotofattoria finisce in soffitta con l’avvento del digitale: gli animali, con polmoni o branchie, possono finalmente tirare un sospiro di sollievo.
E noi? O meglio le nostre “nuove” immagini? Chi se le mangerà? Forse il solito molesto virus che s’insinua nel pc, versione contemporanea e virtuale del microrganismo sopracitato? Forse, ma – soprattutto – se le mangerà il tempo. Pubblicate sui social e inghiottite da un brevissimo flusso temporale. Conservate sui supporti informatici che ancora non ci danno rassicurazione sulla loro durata.
Scrivere di fotografia ci riporta fatalmente alla storia delle immagini e l’iconografia ci insegna che il Tempo, Kronos, è rappresentato con sembianze umane. Cannibalismo insomma.
E – a conti fatti – non so perché, o forse sì, ma voglio esser buona, a me pare che tutto torni.