Archivio mensile:luglio 2017

Revisioni periodiche

 

© Clara Turchi Rose, "Untitled", dalla serie "Photo Album (Memory is a memory, is a memory, is a...)", 2016
© Clara Turchi Rose, “Untitled” dalla serie “Photo Album (Memory is a memory, is a memory, is a…)”, 2016

Nei giorni scorsi ho riletto Il Quartiere di Vasco Pratolini, ripescandolo fra i  miei libri di gioventù. Ricordo che, all’epoca, con l’ingenuità e la presunzione di chi pensava di aver capito, lo relegai tra quei classici che si apprezzavano ma non ci appartenevano.
Nello stesso periodo, come molti miei coetanei, forse in reazione al vacuo edonismo degli anni ottanta, mi esaltavo invece per gli esponenti della beat generation. Ero ammaliata dalle loro storie di ribellione, senza concentrarmi sul vero elemento dirompente: la scrittura.
Da giovanissimi, si vive  – o ci si illude di vivere  – di “prepotenza”. Si coltivano  ambizioni e contraddizioni. Poi il tempo passa e  – a patto che si faccia un serio lavoro di introspezione  – le cose accadono, cambiano e si ribaltano. Per citare un esempio, I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac, romanzo a cui appendevo i vagheggiamenti di un’esistenza scapestrata, adesso risuona come un’eco lontana, mentre Il Quartiere mi parla così da vicino da spingermi alla commozione.
Intendiamoci: i grandi restano tali e Kerouac non si tocca. Solo che ora amo più la sua poesia – in primis gli haiku/pops – della prosa. In età adulta, insomma, si è portati a considerare con tenerezza non certo alcune opere, quanto l’adesione ardente con cui le si approcciava e  – parallelamente – si è indulgenti nel ripensare alle recensioni sbrigative  con cui si “liquidavano” capolavori affrontati senza alcuna struttura.
Va da sé che quel che vale per la letteratura, vale in egual misura per la musica o per il cinema.
Quindi, appurato che  i mutamenti dei nostri paradigmi espressivo/esistenziali coinvolgono tutti i linguaggi da cui siamo istintivamente attratti,  è logico far rientrare anche la fotografia in un analogo sistema di  revisioni periodiche.
Prima di proseguire, onde evitare fraintendimenti, è necessario che io faccia una precisazione: so bene che, per chi fa il mio lavoro, è d’obbligo mantenere una distanza emotiva nei confronti della fotografia che ci viene sottoposta e su cui si è chiamati a riflettere. Ma ciò non esclude che  la passione da cui questa professione ha preso forma, continui a riflettersi pure su un piano privato e in continuo svolgimento. Ritengo dunque decisamente salutare abituarsi a prendere un diverso tipo di distanza: quella da noi stessi. È su di noi che occorre applicare senza sconti tutta la strumentazione critica di cui siamo dotati, per comprendere quando e come la storia delle immagini abbia intersecato la nostra vicenda personale, rintracciando presenze rassicuranti, abbandoni , ritorni e nuovi incontri.
Perché se non siamo in grado di smarcarci da noi stessi, di collocare i cambiamenti del nostro rapporto con la fotografia in un’ottica fisiologicamente e – oserei dire – scientificamente evolutiva, come possiamo arrogarci il diritto non solo di valutare il lavoro degli altri, ma soprattutto di spronarli a un miglioramento e a una progressione costanti?
Più di ogni mio ragionamento, a chiarire quanto l’età non sia solo un fattore anagrafico ma un “dispositivo” con cui misurare le  oscillazioni a cui ho accennato sopra, interviene la lucida e  definitiva frase di Edward Weston, riportata in esergo ai suoi diari: «Ho già scritto la mia introduzione. Eccola: com’ero giovane. Questo comprende tutto».
Giunti fino a qui, potreste anche fermarvi alle  parole esaustive di Weston. Di certo non mi offenderei. Tuttavia questo è un blog in cui mi concedo riflessioni individuali – a tratti diaristiche – e non  voglio pertanto privarmi del piacere di condividere, con chi avrà la pazienza di leggermi, alcune  brevi e sparse riflessioni che mi riguardano.
Prenderò a campione tre periodi topici: l’infanzia, i diciott’anni e l’avvio della professione.
Quand’ero piccina, a Natale e al compleanno, chiedevo in dono libri fotografici sugli animali, nello specifico sui felini. Quei libri avevano su di me lo stesso effetto dei racconti di Kipling o Salgari: leoni, pantere nere e tigri erano creature troppo belle per restare intrappolate tra i bordi di una fotografia. Puntualmente sconfinavano nella mia fantasia di bambina. Mi dispiacque separarmi da visioni tanto affascinanti e debbo ammettere che non ho mai smesso di scorgere nella fotografia naturalistica un potenziale evocativo in grado di sollevare la polvere depositata su ciò che resta della nostra fanciullezza. Un vero peccato che tanta, non tutta per fortuna, fotografia applicata al mondo naturale sia stata “addomesticata” e resa inespressiva dai parametri troppo rigidi entro cui è costretta. Non escludo, a tal proposito, che la mia refrattarietà al concetto di “genere” in fotografia derivi appunto dal desiderio di abolire il concetto di gabbia in ogni sua declinazione.
Abbandonate le foreste, intorno ai diciott’anni, avvisai i primi e concreti segnali di coscienza civile e politica, segnali che mi condussero dritta verso il reportage. Documentazione, denuncia, libertà…Mai avrei sperato di poter un giorno occuparmi dell’archivio di un fotocronista. E – soprattutto – mai avrei potuto prevedere che, proprio quel lavoro che tuttora m’impegna, mi avrebbe indotto a rivedere alcune entusiastiche posizioni giovanili e  a penetrare, condividendole, le ragioni di un lungo dibatto critico che ha  progressivamente smitizzato la figura del fotogiornalista, senza peraltro svilirla.
A laurea conseguita, l’avvio della professione fu segnata da alcuni autori che mi permisero una maggior presa di coscienza sulla fotografia. Voglio soffermarmi su due nomi che per me, per la mia vicenda personale, stanno alla letteratura come Kerouac e Pratolini: Joan Fontcuberta e Joseph Sudek.
Quando scoprii Herbarium e Fauna segreta, per citare due titoli assai conosciuti, Fontcuberta divenne un punto di riferimento. Ovviamente ancora oggi resta tra i miei preferiti. I suoi “vaccini visivi”, come lui stesso ama definirli, comparsi al momento opportuno nel lungo percorso di decostruzione della credibilità fotografica, rimangono una tappa imprescindibile per chi voglia davvero comprendere la contemporaneità. Ma non dimentichiamo che è da piccoli che ci si vaccina. Gli anticorpi servono per crescere sani. O  – se non del tutto sani – comunque per crescere.
Succede quindi che io continui a riconoscere tutta la forza di quei lavori, ma abbia però esaurito ogni tipo di emotività nell’approcciarmi a essi. Anzi, restando nel tema a me caro degli erbari e inserendo la fotografia in un più complesso sistema artistico-culturale, ho proprio di recente collocato l’erbario fontcubertiano un gradino sotto a La botanica parallela di Leo Lionni, opera grafico – letteraria che, fra l’altro, precede di sette anni il lavoro dell’autore catalano.
Joseph Sudek, com’è intuibile, rappresenta il caso opposto. Anch’esso annoverato tra i miei prediletti, mi colpì in origine per ragioni squisitamente estetiche, ragioni che lo ponevano ai vertici della fotografia praticata in “purezza”.  Allo stato attuale, le immagini di Sudek, in particolare quelle dedicate ai giardini, mi suggeriscono sensazioni differenti. Su di loro proietto una cronica propensione all’eremitismo maturata in anni di lavoro solitario in archivio, un graduale allontanamento dalla mondanità fotografica che si risolve nella mitologia dell’esserci a ogni costo, un grumo mai sciolto di incomunicabilità con il prossimo, un’incessante ricerca su fotografia e botanica che sovente sfocia nell’incanto.
In chiusura, rileggendo quanto ho scritto, non so davvero figurarmi in quali termini questo accenno di “verifiche” possa essere di qualche aiuto o interesse per chi ha avuto la bontà di seguirmi. Forse nessuno. Me ne farò una ragione. Mi preme piuttosto chiarire, specialmente a chi partecipa alle mie proposte curatoriali o didattiche, che non ho certezze da offrire e che per me la fotografia è stata e continuerà a essere qualcosa di felicemente irrisolto.
Un terreno di indagine su cui  germoglieranno i dubbi da raccogliere nelle stagioni a venire.

Parlo con lei

© Ada Sola, "Autoritratto", sd
© Ada Sola, “Autoritratto”, sd

Giorni fa mi sono ritrovata a confrontarmi sulla fotografia con Ada Sola.
Capita sovente, guardandomi “intorno”, che io mi rivolga a lei per interrogarmi sul lavoro mio e degli altri, siano essi fotografi, curatori, galleristi o teorici della fotografia nel senso più ampio del termine.
Avevo voglia di stare in sua compagnia e così sono partita da lontano. Dall’inizio.
Il tuo, Ada…

Ho iniziato a fotografare verso la fine degli anni sessanta da quando, in occasione della maturità, mio padre mi regalò una macchina fotografica. Nel primo periodo mi sono appassionata al nuovo strumento in modo ingenuo, direi ora, tuttavia necessario: non ero certo consapevole del mezzo né mi sollecitava utilizzarlo in forma creativa. Raccoglievo immagini per illustrare i viaggi delle vacanze o alcuni momenti della mia vita.
Dal 1980 la fotografia è divenuta un aspetto, in alcuni momenti prevalente in altri marginale, del mio lavoro.

Già, il 1980, anno in cui, a Biella, la tua città, inaugurasti lo “Studio Galleria Figura”. Esponesti, per citare alcuni nomi, i lavori di Luigi Ghirri, Vittore Fossati, Guido Guidi, Roberto Salbitani, Mario Cresci, Franco Vimercati, Paul Den Hollander. Fino al 1986. Hai tracciato un segno forte nella fotografia italiana: le tue intenzioni erano precise. Erano tese all’esercizio intellettuale, non certo commerciale.
Lo si evince chiaramente da una lettera che scrivesti a Mario Cresci, poco tempo prima di aprire il tuo spazio.

Era certo che non volessi diventare un supermercato della fotografia. Volevo conoscere di persona gli autori con cui trattavo e conoscere con una certa precisione e comunque di prima mano il perché del loro lavoro e i significati della loro ricerca.
Ti assicuro che la molla che mi ha spinto su questa strada è stata la curiosità di sapere, di conoscere le persone, di sapere cosa si stava muovendo, di collaborare col mio lavoro alla costruzione di riferimenti culturali non caduchi e di vasto orizzonte.

Che suono strano hanno le tue parole, pronunciate di questi tempi, tempi in cui gli orizzonti spesso si limitano al bordo dello specchio in cui ci si riflette. Ma passiamo ad altro…
Terminata l’esperienza di “Figura” la fotografia è diventata uno strumento di indagine personale. Una sorta di grimaldello con cui ti sei aperta all’osservazione di te stessa e del mondo.

Non so se le mie immagini appaiono contemplative, ad ogni modo vorrebbero esserlo. La fotografia continua a presentare problemi irrisolti, non offre certezze.
Però quello che c’era nell’immagine di proiettivo lo vedevo dopo, è così che la fotografia mi ha insegnato a scoprirmi, a lasciarmi andare…

Certo non ti sei fatta sconti, né ti sei mai fermata sulla soglia dell’esteticità fine a se stessa. Era un altro l’ideale, per così dire, armonico che andavi cercando.

Ho perso il contatto col “sentito-vero” ogni volta che ho cercato di fare una bella fotografia…
Mi sono accorta che le mie immagini sfiorano margini urbani, di natura, incontri possibili mai accaduti. La porzione di mondo che ho fotografato è stata, a volte casuale, un sottile richiamo di fascinazione con-temporaneo solo al momento dello scatto.
Ho cercato un equilibrio nelle forme naturali e anche in quelle che l’uomo impone alla natura…

© Ada Sola, [Alberi] rev696911, sd
© Ada Sola, [Alberi] rev696911, sd
Oltre a praticarla hai sovente usato la fotografia, servendoti di materiali iconografici d’archivio come espedienti per sondare il concetto di memoria o approdare ad altri linguaggi.
Prendiamo tre progetti: Album di famiglia e Narrative Photography, entrambi del 1998 e Memory-Box, del 2000. 
Consideriamo i primi due:

Per “Album di famiglia” ho voluto rifotografare “foto ricordo” o di ricorrenze (battesimi, matrimoni, riti famigliari) da album privati, attualizzandoli. Accostare foto familiari a ricostruzioni visibilmente – ugualmente – false, in posa, di pubblicità, articoli di giornali, riviste illustrate…
“Narrative Photography”, invece, mi ha portato a costruire brevi racconti sulla base delle fotografie. Verificare se c’era almeno una fotografia da una sequenza o da un lavoro che rappresentasse lo stato d’animo o lo stato della conoscenza o dell’esperienza in quella occasione.  Doveva esserci qualcosa da “tenere in mano”, poter stringere, fermare e rivedere a distanza, come un artigianale libricino. La “storia” che non viene fissata nei libri è racconto orale. La memoria storica è negli scritti o negli oggetti materiali.

Memory-Box mi è particolarmente caro. Mi regalasti una delle scatole di cui era costituito. Mi dicesti: «Scegline una e portala con te». Presi una foto dove ti si scorge accanto a Stella, il tuo cane lupo.

“Memory-Box” è una installazione. Sono partita dal presupposto che la fotografia confluisca, come immagine, nelle scatole che compongono i nostri ricordi… Dopodiché ho predisposto un mucchio di qualche centinaio di piccole scatole di cartone nero: alcune aperte, altre richiuse contenenti fotografie da me selezionate. Mi sono detta: «Sarà il pubblico che – spero – avrà la curiosità di aprirle per entrare in contatto coi miei personali ricordi, che magari susciteranno suoi personali ricordi…».
 È chiaro: molte delle fotografie contenute nelle scatole nere mi riguardano, addirittura mi rappresentano in momenti della mia vita, ma è proprio il fatto che suscitino un riconoscimento, una identificazione o anche un rifiuto che fa sì che in questa operazione ci possano essere  due identità da parzialmente ritrovare: la mia e quella di chi mi osserva e si osserva attraverso la mia proposta.

© Ada Sola, "Memory-Box", 2000
© Ada Sola, “Memory-Box”, 2000

Si è fatto tardi, Ada, non possiamo proseguire, lo sai. Ma c’è spazio ancora per una domanda. La stessa che diede l’input a “Figura” e – presumo – a tutta la tua ricerca individuale: «Perché privilegiare per l’espressione artistica il medium fotografico?»

Perché ormai all’interno del mezzo nessuno può più credere che esso consenta la fissazione in immagine di una realtà.

Chi ha avuto il privilegio di conoscere Ada Sola, sa che questa è un’”intervista impossibile”.
Ada se n’è andata, a 57 anni, la notte dell’8 dicembre 2003.
Le parti in corsivo sono state estrapolate (e riportate fedelmente) da appunti di Ada Sola pubblicati sul sito adasola.altervista.org . Le uniche modifiche che ho apportato sono piccoli accordi o adattamenti dei tempi verbali a questo testo.
Ringrazio l’amico (mio, ma soprattutto di Ada) Pierangelo Cavanna per aver sopportato tutti i momenti di crisi che mi hanno accompagnato durante la stesura dell’articolo.
Ho avuto la grande fortuna di frequentare Ada dal 1995 al 2003 e mi scuso con lei se non ho saputo fare di più e di meglio per ricordarla.
So che sarà clemente. Amava a tal punto la fotografia da saperla perdonare.
Io, invece, non perdono la fotografia di averla dimenticata.