Archivio mensile:aprile 2016

L’odore del circo

 

© Enrico Prada. senza titolo, 2015
© Enrico Prada, Senza titolo, 2015

Nella mia cittadina arrivano piccoli circhi, baracconi tanto cari a Federico Fellini, cenciosi, decadenti, con molta polvere e poche stelle.
Normalmente si installano in un piazzale di fronte a casa mia. Se ne sente subito l’odore, inconfondibile e greve.
In quei giorni, m’invade un senso di pena profonda. Così, non riesco neppure ad affacciarmi alla finestra per guardare gli stretti recinti degli animali tristi o gli indiani con le livree rosse e troppo larghe che accolgono gli spettatori, mal celando la loro magrezza dietro ai denti bianchi.
Al piccolo circo, sottraggo pure l’udito e non solo la vista, perché davvero mi commuovono, d’una commozione lacerante, sia le musiche delle finte orchestrine, sia la voce da “Settimana Incom” con cui il presentatore commenta i numeri di trapezisti, clown e scimpanzé ballerini.
Ma resta l’odore: anche quando i carrozzoni se ne vanno. E quell’odore porta lontano il mio naso “urbano”, evocando suggestioni tigrate e misteriose, che sostituiscono la tristezza con un esotismo da romanzo salgariano.
Per me, certa fotografia (certa, non tutta, s’intende), funziona unicamente se reca con sé l’odore del circo, se me lo restituisce.
Funziona se la si deve non tanto osservare o raccontare, ma annusare. Funziona se è indizio minimo di qualcosa che è accaduto, se nega lo sguardo all’azione eclatante per evocarla in maniera differente, avventurandosi su piste poco battute.
È la fotografia del giorno dopo, dell’attimo perduto, di chi arriva in ritardo e perde la coincidenza, ma non per questo arresta il viaggio. È la fotografia di chi ha fiuto nel trattare lo struggimento, il dolore o – sul piano opposto – la leggerezza e la felicità con un istinto che è più dell’animale che dell’uomo/fotografo eccessivamente “alfabetizzato”.  Di chi sa leggere i segni e sa lasciar segni indefiniti di sé.
Di chi, insomma, produce con la fotocamera scatti ferini e – deliberatamente – decide se far perdere o ritrovare le proprie tracce allo spettatore.

A ognuno il suo

 

© Nicoletta Nicosia, dalla serie "Babau", 2003
© Nicoletta Nicosia, dalla serie “Babau”, 2003

Ognuno ha i suoi miti. Pure la Fotografia.
In tanti, per spiegarne le origini e il fascino, ricorrono a Narciso, che annegò specchiandosi in una sorgente, rapito da un delirio erotico di auto-ammirazione.
Altri ancora rivedono nello sguardo fatale di Medusa, in quel rimanere “pietrificati per esser stati visti” (Dubois, 1983), la capacità della fotografia di cristallizzare in un solo istante il flusso temporale, sottraendo metaforicamente il soggetto alla propria vita.
Un ulteriore esempio, forse meno noto, è proposto da Oliver Wendell Holmes (che ho già avuto modo di citare in un precedente articolo) in un saggio pubblicato sull’Atlantic Monthly nel 1861 e intitolato “Dipinti e sculture del sole. Con un viaggio stereoscopico attraverso l’Atlantico”.
Siamo ancora nell’Antica Grecia e la storia è quella del giovane Marsia che osò sfidare Apollo esibendosi con il flauto di Minerva. Un affronto pagato dal poveretto con un terribile supplizio inferto per mano dello stesso Apollo, che lo legò a un albero e lo scorticò vivo. Wendell Holmes, per natura lieve ed entusiasta, fornisce della truce vicenda un’interpretazione inedita ma molto interessante: «(…) il dio del Canto era anche il dio della Luce e, con un atto di riflessione, potremmo comprendere il significato di questo mito apparentemente barbaro. Apollo, compiaciuto del suo giovane rivale, lo fa mettere in posa davanti a un cavalletto (l’albero del racconto) e lo fissa in una fotografia, cioè in un’immagine fatta con il sole. Questa sottile pellicola o pelle di luce ed ombra è stata assurdamente intesa come la pelle del pastore».
Debbo ammettere che mi piace pensare alla fotografia come a una membrana luminescente che ci lasciamo appresso: mi rimanda alla muta di certi animali, mi infonde un senso di rigenerazione.
Va altresì ricordato, su un piano assai più truculento, che lo studio delle immagini offre altri campioni di spellati illustri: l’agiografia cristiana annovera san Bartolomeo che tuttora, nelle statue e nei dipinti che lo rappresentano, va portandosi appresso la sua “cotenna”. Lo stesso Buonarroti, nel Giudizio Universale, “usò” la pelle del santo come supporto per incastonarvi un famosissimo e drammatico autoritratto. Abbandonando la pittura e risalendo alla seconda metà del Novecento, se non proprio di scorticamenti, la fotografia è stata testimone di tagli o ferite di vario genere autoprodotte dagli artisti della body art, nel corso delle loro performance.
Lontano da un’esperienza performativa, ma molto attento all’arte contemporanea, Giacomelli stesso definiva i toni fortemente contrastati dei suoi paesaggi come cicatrici che ciclicamente si riaprivano arrecandogli dolore.
Insomma, tornando al mondo classico: Narciso, Medusa, Marsia…che potere mitico ha su di noi la fotografia? Ci fa innamorare perdutamente del nostro ego? Ci pietrifica? Ci scortica lasciandoci sanguinanti? O ci permette di abbandonare tracce fragili come pellicole, rinnovandoci a ogni stagione della nostra vita?

 

Nota a margine: il citato articolo di Oliver Wendell Holmes, è inserito nel libro di Giovanni Fiorentino Il flâneur e o spettatore. La fotografia dallo stereoscopio all’immagine digitale, Franco Angeli, Milano, 2014. Ve ne consiglio la lettura.

Altrove

© Gianni Rossi, "Migratori", 2016
© Gianni Rossi, “Migratori”, 2016

L’importanza del fuori campo in fotografia è uno degli argomenti sui quali non mi stanco di insistere durante i miei laboratori. Lo spazio che si estromette dall’inquadratura è spazio annullato, “materia” invisibile consegnata alla sensibilità incontrollabile dello spettatore. Il fuori campo, che può diventare pure il soggetto principale di una ricerca autoriale e sperimentale, va quindi soppesato con perizia, sia che si pratichi una fotografica narrativo-didascalica, sia che ci si dedichi a lavori più evocativi.
In ogni caso, senza addentrarci in ragionamenti che rinvierò ad altri articoli, l’importanza di inclusioni ed esclusioni è determinata dal fatto che la fotografia ha dei bordi. Bordi connaturati alla fotografia stessa e fatalmente funzionali alla sua riuscita, che devono essere pertanto trattati con rigore formale e – a mio parere – soprattutto concettuale.
Ripescando così l’etimologia della parola “bordo”, che deriva dal francese bord e indica nello specifico l’interno della nave, la mia riflessione odierna sul fuori campo, o sul fuori bordo, approda all’idea di viaggio, anzi, a quella tipologia particolare di viaggio che è il flusso migratorio.
Il tema è complesso e attualmente drammatico, ma tenterò di ricondurlo nei limiti del fotografico, partendo da un cenno leggero, autobiografico e non antropocentrico.
Nella bella stagione, prima dell’imbrunire, ho l’abitudine di ritagliarmi un quarto d’ora in terrazza a osservare le rondini che si rincorrono incessantemente intorno agli edifici che circondano la mia casa.
Le rondini sono esseri a cui appartiene più il fuori campo che l’inquadratura. Quando le si fotografa, si ferma un altrove che è già nel loro sguardo e che non rientrerà mai nel nostro obiettivo. Quel che è conservato o captato dai loro occhi è negato ai nostri. Portano tra le piume porzioni di mondo in cui si muovono mari, scoppiano bombe, si abbattono uragani, cambiano stagioni. Ciò che loro attraversano annualmente (e complessivamente) in volo può solo essere tradotto per noi, in parte infinitesimale, da certe immagini di reportage.
Gli uccelli, ma tutti i migranti, umani compresi – non dimentichiamolo – varcano con fatica soglie che noi ci limitiamo a osservare, a casa nostra, tra i bordi di una fotografia. Non c’è polvere sui nostri occhi, né salsedine a seccarci la pelle o pioggia a inzupparci i capelli.
Siamo reciprocamente fuori campo.
Le rondini che sopravvivono al lungo viaggio, tornano ad annunciarci che la primavera è arrivata. Incuranti di essere simbolo di rinnovamento e buon auspicio. Incuranti di ricambiarci lo sguardo che rivolgiamo loro con una fotocamera. Mai disposte ad arrestare il volo per compiacerci. Per un prezioso istante dentro la nostra ristretta area visiva, perennemente fuori dal nostro campo immaginativo che spesso, come accade in fotografia, sembra essersi perduto per sempre.

Ssssst…

© Stefano Ghesini, senza titolo, 2008
© Stefano Ghesini, senza titolo, 2008

In un interessante saggio intitolato “Quasi niente, piùchepianissimo”, Carlo Migliaccio, docente di filosofia e musicologo, individua tre modalità del silenzio musicale: «un silenzio ante, un silenzio intra e un silenzio post», riprendendo fra l’altro il concetto espresso da Thomas Clifton in The poetics of Musical Silence (1976) secondo cui «c’è una differenza tra il tempo che un brano occupa e quello che un brano presenta».
Il silenzio ante prepara l’esecuzione del brano, è raccoglimento, respiro che precede l’esplosione di note.
Il silenzio intra riguarda invece le pause inserite nello spartito, segni grafici che hanno una specifica funzione linguistica al pari della punteggiatura in letteratura.
Il post è l’attimo di sospensione, quasi permeato di sacralità, che anticipa l’applauso. Un attimo in cui tutto ciò che si è ascoltato viene compresso per poi sciogliersi in emotività.
Penso che la stessa tripartizione valga per la fotografia.
Prima dello scatto, ho visto diversi fotografi ammutolirsi, estraniarsi, perdersi in un istante di vuoto quasi meditativo, istante ove è impossibile ogni forma di comunicazione. È più di una sospensione: è un distacco temporaneo dalla realtà, dalla vita vissuta. Non è assenza, è una dimensione ipnotica, spezzata solo dal rumore dell’otturatore.
In un secondo momento, come accade per la partitura musicale, il silenzio assume una sua valenza grammaticale tutta compresa all’interno dell’inquadratura. Silenzio fatto di spazi come “virgole visive” che s’insinuano nella composizione, permettendo all’occhio di compensare riposo e sollecitazione.
Ante: il fotografo.  Intra: la fotografia. Post: lo spettatore.
Spettatore che, passando da un’immagine all’altra, durante un’esposizione o sfogliando un libro, in attesa di esprimere un parere, fissa dentro di sé, per un periodo variabile, le sensazioni assorbite durante la visione. Silenzio che non va confuso con il tacere reverenziale nei confronti dell’autore, sul quale non voglio soffermarmi, ritenendolo impositivo e quindi privo di creatività interpretativa.
Va da sé, infatti, che esiste una sostanziale diversità tra l’intimazione del tacere e il silenzio introspettivo, che permette piuttosto di elaborare dentro cosa abbiamo visto fuori.
Mi piace allora includere nella categoria del post, non solo gli intervalli verbali, ma pure gli intervalli dello sguardo e citare a tal proposito Sandro Bini, fotografo e direttore dell’associazione culturale “Deaphoto” di  Firenze, che, durante una conversazione, mi disse: «Quando esci da una mostra, fermati e chiudi gli occhi. Visualizzerai una sola immagine: la tua preferita».
Davvero, come sosteneva Clifton per la musica, anche nella fotografia c’è differenza tra il tempo che un’immagine occupa e quello che un’immagine presenta.
Tempo che ci sfuggirebbe se non fosse costellato di silenzi ante, infra e post. Ai quali ne farei seguire un quarto: silenzio ab libitum, ovvero “a piacere”, perché nessuno può vietarci di trattenere interiormente e finché ne avremo voglia, ciò che un’immagine ci ha comunicato e che per noi resta misteriosamente ineffabile.

 

Nota a margine: il citato saggio di Carlo Migliaccio, è inserito nel libro, a cura di Nicoletta Polla Mattiot, Riscoprire il silenzio – Arte, musica, poesia, natura fra ascolto e comunicazione, BCDE editore, Milano, 2013