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Ssssst…

© Stefano Ghesini, senza titolo, 2008
© Stefano Ghesini, senza titolo, 2008

In un interessante saggio intitolato “Quasi niente, piùchepianissimo”, Carlo Migliaccio, docente di filosofia e musicologo, individua tre modalità del silenzio musicale: «un silenzio ante, un silenzio intra e un silenzio post», riprendendo fra l’altro il concetto espresso da Thomas Clifton in The poetics of Musical Silence (1976) secondo cui «c’è una differenza tra il tempo che un brano occupa e quello che un brano presenta».
Il silenzio ante prepara l’esecuzione del brano, è raccoglimento, respiro che precede l’esplosione di note.
Il silenzio intra riguarda invece le pause inserite nello spartito, segni grafici che hanno una specifica funzione linguistica al pari della punteggiatura in letteratura.
Il post è l’attimo di sospensione, quasi permeato di sacralità, che anticipa l’applauso. Un attimo in cui tutto ciò che si è ascoltato viene compresso per poi sciogliersi in emotività.
Penso che la stessa tripartizione valga per la fotografia.
Prima dello scatto, ho visto diversi fotografi ammutolirsi, estraniarsi, perdersi in un istante di vuoto quasi meditativo, istante ove è impossibile ogni forma di comunicazione. È più di una sospensione: è un distacco temporaneo dalla realtà, dalla vita vissuta. Non è assenza, è una dimensione ipnotica, spezzata solo dal rumore dell’otturatore.
In un secondo momento, come accade per la partitura musicale, il silenzio assume una sua valenza grammaticale tutta compresa all’interno dell’inquadratura. Silenzio fatto di spazi come “virgole visive” che s’insinuano nella composizione, permettendo all’occhio di compensare riposo e sollecitazione.
Ante: il fotografo.  Intra: la fotografia. Post: lo spettatore.
Spettatore che, passando da un’immagine all’altra, durante un’esposizione o sfogliando un libro, in attesa di esprimere un parere, fissa dentro di sé, per un periodo variabile, le sensazioni assorbite durante la visione. Silenzio che non va confuso con il tacere reverenziale nei confronti dell’autore, sul quale non voglio soffermarmi, ritenendolo impositivo e quindi privo di creatività interpretativa.
Va da sé, infatti, che esiste una sostanziale diversità tra l’intimazione del tacere e il silenzio introspettivo, che permette piuttosto di elaborare dentro cosa abbiamo visto fuori.
Mi piace allora includere nella categoria del post, non solo gli intervalli verbali, ma pure gli intervalli dello sguardo e citare a tal proposito Sandro Bini, fotografo e direttore dell’associazione culturale “Deaphoto” di  Firenze, che, durante una conversazione, mi disse: «Quando esci da una mostra, fermati e chiudi gli occhi. Visualizzerai una sola immagine: la tua preferita».
Davvero, come sosteneva Clifton per la musica, anche nella fotografia c’è differenza tra il tempo che un’immagine occupa e quello che un’immagine presenta.
Tempo che ci sfuggirebbe se non fosse costellato di silenzi ante, infra e post. Ai quali ne farei seguire un quarto: silenzio ab libitum, ovvero “a piacere”, perché nessuno può vietarci di trattenere interiormente e finché ne avremo voglia, ciò che un’immagine ci ha comunicato e che per noi resta misteriosamente ineffabile.

 

Nota a margine: il citato saggio di Carlo Migliaccio, è inserito nel libro, a cura di Nicoletta Polla Mattiot, Riscoprire il silenzio – Arte, musica, poesia, natura fra ascolto e comunicazione, BCDE editore, Milano, 2013