Archivio mensile:marzo 2017

Figure (e) retoriche

Tessere dello "Scarabeo"
Tessere dello “Scarabeo”

Vi sarete accorti quanto mi piaccia partire da lontano per afferrare un concetto e proporre una riflessione. Ecco, oggi, il mio “viaggio” inizierà da uno dei luoghi che ho più amato: l’Islanda.
Tempo fa, leggendo i saggi di Jeorge Louis Borges contenuti nella raccolta Storia dell’eternità (ed. Adelphi, 1997), appresi dell’esistenza delle kenningar islandesi, ovvero, per citare il poeta e scrittore argentino, di quelle metafore o «formule enigmatiche» che rappresentano il «primo deliberato piacere verbale di una letteratura istintiva”. Fu Snorri Sturluson – identificato da Borges quale «noto storico, archeologo, edificatore di terme, geneaologista, presidente di un’assemblea, duplice traditore, decapitato e fantasma» –  a fornire un’iniziale compilazione delle bizzarre figure retoriche di cui traboccano i poemi epici scaturiti da crepacci e vulcani.
Riporto alcuni esempi, estrapolandoli qua e là: il braccio è definito “gamba della spalla”, il cielo diventa la “tazza dei venti”, il cuore la “dura ghianda del pensiero”, il mare “tetto della balena” o “prato dei gabbiani”, il petto “dimora delle risate” e così via. Insomma, un acrobatico tripudio di fantasia che merita di esser conosciuto.
Fatto sta che, in virtù di un abbinamento che riconosco essere azzardato, le kenningar mi rimandano ogni volta ai titoli posti a corredo di certe fotografie d’inizio Novecento.
Uno fra tutti? Candida brina mesta regina, titolo che il fotografo torinese Guglielmo Oliaro diede a un suo paesaggio premiato nel 1907 dalla Società Fotografica Subalpina e titolo, fra l’altro, di uno dei capitoli del libro «La Fotografia Artistica» 1904 – 1917 / Visione italiana e modernità (ed. Bollati Boringhieri, 1990), scritto dal compianto Paolo Costantini.

Guglielmo Oliaro, "Candida brina mesta regina", 1907
Guglielmo Oliaro, “Candida brina mesta regina”, 1907

Candida brina mesta regina, dunque. A qualcuno vien da sorridere nel leggerlo? Io non lo farei. Detto questo, non voglio sostenere che in un secolo poco sia cambiato, ma certo ancora molto «s’ha da fare» in materia di titolazione. Si sa che la lingua italiana, contrariamente all’idioma islandese mai variato nel corso dei secoli, è duttile e sensibile ai cambiamenti e alle colonizzazioni. Tuttavia, nel nostro Paese, gli infervorati rigurgiti di contemporaneità non si sono dimostrati impermeabili all’oleografia o al provincialismo.
Intanto, anche se – e sottolineo se – un titolo evocativo funzionasse per un’intera serie, difficilmente la stessa cosa varrebbe per le singole fotografie. Non dovremmo mai dimenticarci, infatti, che ciò che è contenuto tra i bordi di un’inquadratura è, in buona sostanza, ciò che ci serve: non abbiamo alcun bisogno di invocare ectoplasmatiche presenze dall’aldilà del fuori campo, non tanto visivo quanto concettuale.
Una rondine non fa primavera, un anziano non fa solitudine, per intenderci.
Vogliamo commentare i titoli in inglese? Beh, certo i photographer, hanno “acca” da vendere, un magazzino pieno, mi vien da pensare. Invece, chi si occupa di project ha i serbatoi colmi di “i lunghe”.
Capisco, o mi sforzo di capire, ma non sempre l’ammmerica (sì, con tre “emme” e lo zio miliardario pronto a “sganciare” l’eredità) è lì ad aspettarci e allora, forse, meglio non ammalarsi di entusiasmo. Meglio non esser né affrettati, né affettati. Meglio pensare. Pensare a chi è diretto un lavoro, a chi lo guarderà realmente, a chi dovrà interpretarlo proprio a cominciare dal titolo. Amiamo giocare con le lingue? Facciamolo con tutte. Usiamole, quando serve, ma non limitiamoci a una. Oggi inglesi, domani italiani, poi francesi, greci e giapponesi, cittadini del mondo intero.  Non vogliamo rinunciare a essere international? Bene, anzi giusto: abbiamo la possibilità di creare siti bilingue, accessibili tanto ai nostri connazionali quanto ai nostri estimatori stranieri.
Già che ci siamo, ricordiamoci, inoltre, che Senza titolo non è una scorciatoia, ma un titolo a tutti gli effetti e che contiene, pertanto, un’indicazione ben precisa per il fruitore.
Non dimentichiamo, neppure, che un titolo non è una didascalia, ma è una parte di essa, insieme con il nome e cognome dell’autore, il luogo e la data di produzione.
Non vi ho convinti? Pazienza. Per tornare alle kenningar e concludere, io, con “la mela del petto” (1) e fuori dalle “rocce della parola” (2),  vi ho invitato a usare la “rupe delle spalle” (3) . Alla peggio, leggendo l’ennesimo artificio linguistico, esclamerò: che “foresta del mento” (4)!

 

Note
1. cuore
2 .denti
3. testa
4. barba

E lucean le stelle

© Stefano Ghesini Salvadori, "Non tutta la meraviglia..." [particolare dell'installazione a cielo], 2017
© Stefano Ghesini Salvadori, “Non tutta la meraviglia…” [particolare dell’installazione a cielo], 2017

«Osservare il cielo è la grazia e la maledizione dell’umanità», queste le parole pronunciate dallo studioso e storico dell’arte Aby Warburg, durante la sua straordinaria conferenza sul Rituale del serpente, tenuta nel 1923 per un pubblico non specializzato, formato dai medici e dai pazienti della casa di cura “Kreuzlingen”.
Scrutare il “soffitto” della nostra ideale «casa-universo», altra splendida definizione warburghiana, è pedagogico e salvifico: ci educa all’attesa e alla misurazione delle distanze. Ci predispone alla scoperta e ci rende permeabili al senso di meraviglia da essa generata.
Il cielo, maiuscolo o minuscolo che lo si intenda, è lo schermo su cui proiettiamo il nostro mondo scientifico e fantastico. Dal cielo, minuscolo o maiuscolo che lo si intenda, riceviamo segnali che ci orientano nella ricerca sulla nostra origine, fisica e spirituale.
Torno, per chiarire meglio, a una seconda frase contenuta nell’intervento di Warburg: «La siccità ci insegna a fare incantesimi e preghiere». La pioggia non cade da settimane, l’uomo è impotente di fronte a un fenomeno meteorologico vitale, ma che tarda ad arrivare. È durante un’attesa tanto sfinente che il cielo si popola di dei. Di dei che chiedono d’esser nominati, rappresentati, adattati alle forme di vita che abitano la Terra. L’horror vacui si placa con la proliferazione di immagini e parole. Come elettricità in un cumulonembo, la volta celeste si carica progressivamente di simbologia e sacralità e si scarica infine al suolo abbattendo distanze fisicamente e psicologicamente incommensurabili.
La storia delle arti visive ci svela quanto vasto sia il repertorio iconografico affidato al cielo e da esso restituito. Sopra le teste dei Nativi Americani facevano tana aquile e serpenti, l’Empireo bizantino e medievale traboccava d’oro,  l’atmosfera rinascimentale riammetteva l’azzurro, le nuvole e i miti classici sfrattati dal cristianesimo. Livido, spiraliforme e gonfio di visioni estatiche era il cielo barocco rappresentato nelle chiese, mentre limpido e giocoso quello che sfondava le pareti dei palazzi, attraverso strabilianti trompe l’oeil. Gli illuministi volgevano lo sguardo verso l’alto con occhio “telescopico”, mentre i romantici declinavano i loro sentimenti “astrali” con la meteorologia.
Neppure l’avvento  deflagrante della fotografia riuscì a scalfire il nostro rapporto arcaico con il cielo.
L’asettica riproduzione fotografica ottocentesca dei corpi celesti non poteva esaurire una vicenda iconografica lunga quanto l’uomo.  Trasformare l’invisibile in qualcosa di visibile e permanente non bastava. Erano altre le distanze che  dovevano essere accorciate, anzi abbattute. Lo dimostrano alcuni esempi illustri. Tra il 1925 e il 1934  Alfred Stieglitz, con i suoi  Equivalents, consegnò al cielo il concetto stesso di fotografia, stabilendo, come scrive Molly Nesbit «un ponte tra la forma e l’emozione».

© Alfred Stieglitz, dalla serie "Equivalents", 1925 - 1934
© Alfred Stieglitz, dalla serie “Equivalents”, 1925 – 1934

Quarant’anni dopo fu Luigi Ghirri, con ∞ Infinito, a proseguire e ampliare ab libitum l’intuizione filologica di Stieglitz, accordando le frequenze spaziali con la poetica di Pasolini e  Dylan.

© Luigi Ghirri, “∞ Infinito”, [particolare], 1974
Nel 1993, il cielo forniva a  Joan Fontcuberta gli anticorpi per uno dei suoi vaccini visivi intitolato, appunto, Costellazioni: «l’estrema eleganza della creazione», per usare le parole dell’autore, coniugata con l’«egemonia della visione tecnoscientifica»,  permisero al fotografo catalano di trasformare l’«impronta equivoca» di insetti e altri piccoli detriti accumulati sul parabrezza della sua automobile in una visione cosmica mistificata ma condivisa e perciò credibile.

© Joan Fontcuberta, "Costellazioni", 1993
© Joan Fontcuberta, “Costellazioni”, 1993

Spostiamoci in Giappone, in un Oriente contemporaneo, ma ancora – e felicemente  –  in grado di guardare a una tradizione pittorica che assegnava al Cielo (天) la capacità di avvolgere e animare «il paesaggio per mezzo dei venti e delle nuvole», come scriveva Shitao tra il 1710 e il 1717 nei Discorsi sulla pittura. Arriviamo fino al 2008, quando, con Lightning Fields, titolo ripreso da una straordinaria installazione di Walter De Maria del 1977, Hiroshi Sugimoto, in un lavoro che potremmo definire “para-meteorologico”, fissava e ingabbiava tra i bordi di un’immagine gli effetti di una scarica elettrica sui materiali fotosensibili, rendendo un omaggio critico ai pionieri della scienza e della tecnica, fra cui si annoverano pure coloro che misero a punto i primi procedimenti fotografici.

© Hiroshi Sugimoto, "Lightning Fields", 2008
© Hiroshi Sugimoto, dalla serie “Lightning Fields”, 2008

Seguendo un moto orbitale, i fulmini artificiali  di Sugimoto ci riconducono nuovamente ad Aby Warburg. Nelle frasi conclusive della sua dissertazione, dedicata proprio al fulmine/serpente, l’intellettuale tedesco, prendendo a campione  lo studio e il controllo del cosmo e dei fenomeni atmosferici, ci chiede di non sacrificare,  in nome di un progresso tecnologico assorbito passivamente,  il patrimonio immaginifico che l’uomo ha costruito fin dalla preistoria. «Il destino del serpente è lo sterminio. Il fulmine imprigionato nel filo – l’elettricità catturata – ha prodotto una civiltà che fa piazza pulita del paganesimo. Le forze della natura non sono più concepite come entità biomorfe o antropomorfe, ma come onde infinite che obbediscono docili al comando dell’uomo. In questo modo la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero».
Non smettiamo di interrogarci, dunque e – mentre tentiamo di rappresentarlo – domandiamoci quanto il cielo stellato sia sopra o dentro di noi. In nome di una riflessione seria, sono certa che anche Kant ci perdonerà.