Archivi tag: ritratti

Vilma dei colletti bianchi

"Ritratto di famiglia", 1930 circa, collezione privata. particolare in cui si riconosce l'intervento di fotoritocco.
“Ritratto di famiglia”, 1930 circa, collezione privata. [Particolare in cui si riconosce l’intervento di fotoritocco].
Quella che leggerete è un’intervista a un’anziana ritoccatrice. Intervista estratta da un saggio che scrissi nel lontano 1997, intitolato Tipi fotografici e pubblicato sul numero di aprile (anno 17°) de “L’impegno – rivista di storia contemporanea” (periodico edito dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società civile nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia).
Vilma, che ormai non c’è più, non volle per pudore che scrivessi il suo nome per esteso: oggi glielo restituisco, mantenendo segreto il cognome e il paese dove lavorava, per non tradire troppo le sue volontà.
L’incontro con lei fu toccante e denso, forse anche perché avvenuto sul finire di un’epoca. Per me, resta ancora una valida lezione sulla fotografia (analogica) e sul difficile ruolo delle donne in un settore dominato dagli uomini.

Intervista a V. M., ritoccatrice

V. M. ha 72 anni e dal 1942 lavora come ritoccatrice in un vecchio negozio di foto-ottica, attivo dal 1927 in un paese del Vercellese. Risponde alle domande seduta dietro al suo vecchio tavolo di lavoro, sistemato nel retrobottega e “invaso” da fotografie, carta e scatole contenenti le 54.008 fototessere scattate fino al 1993, anno in cui fu smantellata la sala di posa. Appesi a un cordoncino, lungo le pareti, ci sono gli abiti che lei cuce, nei frequenti momenti di inattività, per sé o per le nipoti del titolare, un anziano maestro elementare succeduto nel 1946 allo zio fotografo, primo proprietario dello studio.

«Ho iniziato a lavorare qui quando c’era ancora la guerra. Io non volevo fare questo mestiere: allora i negozi di fotografia erano frequentati solo da uomini e io mi vergognavo. Poi però mi sono lasciata convincere».

Che cosa avrebbe voluto fare?
«La sarta. Prima di venire qui facevo l’apprendista da una sarta, ma dopo un po’ di tempo ho scoperto che fare la ritoccatrice mi piaceva di più e sono rimasta in negozio. Se dovessi tornare indietro, lo rifarei. Mi piace ogni aspetto del mio lavoro. Quando un lavoro riesce bene, dà soddisfazione e lo si continua a fare, anche se all’inizio non si è entusiasti».

Di cosa si è occupata in tanti anni di mestiere?
«Di sviluppo, stampa e ritocco. Sviluppavo le fotografie scattate in studio e in esterno dallo zio del maestro, poi facevo gli ingrandimenti, il ritocco e la coloritura. E “sviluppavo il dilettante”… ».

…ovvero?
«Sviluppavo i rullini dei fotoamatori».

Chi le ha insegnato?
«Lo zio dell’attuale proprietario, che morì tre anni dopo il mio arrivo, nel ’45. Come prima cosa mi fece vedere come si svolgeva il lavoro in camera oscura, poi, poco per volta, m’insegnò le tecniche del ritocco. L’apprendistato era così: si imparava un mestiere accanto a chi lo sapeva già fare.
E non si veniva pagati subito. Per il primo anno mi accontentai di una piccola mancia domenicale; dopo quel periodo, però, avevo imparato a mandare avanti uno studio fotografico».

Quindi scattava anche…
«Solo le fototessere. Dei ritratti, dei mezzi busti e delle fotografie con il fondale se ne occupava il proprietario, che era un bravo fotografo. C’erano anche i servizi esterni, ma io non li ho mai fatti, perché mi vergognavo. Non mi piaceva stare in mezzo alla gente con una macchina fotografica in mano: mi guardavano tutti, anche perché non era un mestiere da donna. Preferivo stare in negozio e, soprattutto, ritoccare».

Che tipo di fotografie erano sottoposte al ritocco e perché?
«Tutte: dalle tessere alle foto a figura intera realizzate in studio o in esterni.
Una volta ci si faceva fotografare poche volte nella vita e le fotografie dovevano essere belle, senza difetti. Oggi ognuno ha la macchina fotografica e usa rullini su rullini: ci sono tante fotografie fra cui scegliere la migliore.
Quando ho iniziato questo lavoro, invece, le persone, per avere una fotografia, dovevano recarsi in uno studio e lo facevano in media tre o quattro volte nella vita. I genitori portavano i figli in fasce per fare la prima fotografia, poi tornavano in occasione della prima comunione. Verso i diciotto anni era necessaria una fototessera; quasi tutti, inoltre, si facevano fotografare dopo il fidanzamento e nel giorno delle nozze. Erano foto importanti e il ritocco era necessario, perché i negativi e le stampe uscivano puntinati di bianco».

Come si eseguiva il ritocco?
«Per prima cosa intervenivo sul negativo, coprendo le macchie bianche con una matita che aveva una mina speciale e poi passavo al positivo, utilizzandone un’altra. Avere buone matite è fondamentale per la riuscita del ritocco: le “Hardmuth” sono sempre state le migliori. Per i negativi si sceglievano mine che andavano dalla 1 alla 4B e anche oltre, mentre per i positivi si andava dalla 0 alla 8. Le mine più dure avevano un tratto deciso ma meno persistente, quelle più morbide lasciavano un segno più duraturo. Penso che esistano ancora oggi: io, per i pochi ritocchi che faccio adesso, adopero quelle comperate vent’anni fa».

Che materiali usava, oltre alle matite?
«I raschietti e una serie di colori ad acqua numerati per colorare le stampe in bianco e nero. I raschietti sono dei piccoli coltellini, che noi abbiamo sempre confezionato artigianalmente con le lamette da barbiere e che servono per sbiancare le parti troppo grigie sulla stampa. Nel ritratto, per esempio, erano utili per rendere i denti più bianchi o i colletti più puliti».

E i colori…
«All’inizio si compravano in polvere e si dovevano mischiare con l’acqua in un piattino. Ho ancora i botticini nel cassetto…[lo apre N.d.A] eccoli qui! I primi che ho usato erano italiani: i “Carlo Piazza”; poi sono passata ai “Pelikan”. Adesso, invece, mi servo di libretti molto comodi, composti da dei cartoncini su cui hanno steso uno strato di colore. Io non devo fare altro che scegliere i colori che voglio utilizzare, inumidire il pennello, passarlo sui cartoncini, mischiare i colori in un piattino e poi passare alla coloritura della fotografia. Dopo che i colori sono asciugati bene, controllo se vi sono ancora delle macchie bianche e ritocco con la matita per positivo. Il colore va sempre usato prima della matita perché, essendo ad acqua, farebbe svanire i segni delle mine».

Sul libretto vengono anche indicate quali combinazioni di colori usare per ottenere, ad esempio un incarnato?
«Macché! Si deve andare a occhio: bisogna imparare a regolarsi con l’esperienza e un po’ di gusto».
[I colori che usa V. M. sono i “Nicholson’s Peerles Transparent Water Color”, prodotti negli Stati Uniti dal 1902. In realtà, dietro ogni cartoncino colorato, è specificato il nome del colore, l’utilizzo più appropriato e i risultati che si ottengono con altre combinazioni di colori, ma V. M., com’è intuibile, non conosce l’inglese. N.d.A]

Perché i clienti volevano le fotografie colorate?
«Perché sembravano più vive, più belle e più reali. Anch’io le preferisco e poi mi piace molto colorare, mi riesce bene».

Quali sono stati gli anni in cui ha lavorato di più?
«Si lavorava tanto negli anni cinquanta e sessanta. Prima non c’era molto da fare perché tutti erano in guerra e poi sono subentrate le pellicole a colori che hanno fatto la fortuna dei grandi laboratori di città».

Nel periodo di maggior impegno i suoi clienti erano più uomini o donne?
«Non saprei, non mi sembra che ci fosse una gran differenza. Qui venivano un po’ tutti, soprattutto per le fototessere».

Quante persone, oggi, si rivolgono ancora a lei?
«Pochi, quasi nessuno. Solo due anni fa abbiamo avuto un bel po’ di lavoro: ci siamo occupati delle riproduzioni di fotografie in bianco e nero, che sono state pubblicate su un libro dedicato alle vecchie immagini di questa cittadina e ai personaggi di un tempo. Le richieste più frequenti, comunque, riguardano sempre ristampe di qualche vecchio negativo. Noi in negozio ne abbiamo quasi centomila, su lastra o su pellicola, che riguardano la storia e gli abitanti del paese. Sono tutti numerati e riportati su un grande registro. Da noi sono passati in tanti a farsi fotografare: così, oggi, se un cliente vuole una fotografia di una persona anziana, magari morta da poco, noi consultiamo il registro e ripeschiamo il negativo del ritratto, poi io lo stampo ed eseguo il ritocco. Ma capita raramente.
Fino agli anni sessanta. inoltre, c’erano i fotoamatori che mi portavano i rullini da sviluppare. Adesso, però, pochi dilettanti usano ancora il bianco e nero: sono tutti più esigenti, mandano i negativi delle pellicole a colori ai laboratori e quando vedono le stampe non sono mai contenti. Una volta, quando il lavoro era ancora tutto artigianale, si accontentavano più facilmente e comprendevano la difficoltà del nostro lavoro: molte volte, dopo che avevano visto un restauro riuscito bene, mi facevano anche i complimenti».

Ha mai avuto contatti con l’ambiente fotografico, al di fuori del paese o del negozio?
«No. Il mio mondo era ed è il negozio. Qui ho imparato e qui sono rimasta».

Ha insegnato a qualcuno questo mestiere?
«Un po’ di anni fa vennero due ragazze per imparare, ma si stancarono subito. Anzi, rimasero deluse: volevano essere pagate subito, ma questo è un lavoro lungo da apprendere. Non le ho più riviste».

Con l’avvento delle nuove tecniche fotografiche di sviluppo e stampa che ruolo ha, oggi, una professione come la sua?
«Nessuno: oggi non serve più a nulla, non ha più senso, come quasi tutti i lavori di artigianato che richiedono una buona manualità. La tecnica ha sostituito i ritoccatori e nessuno si interessa più a questo mestiere. Se un giorno però ci fosse un’esplosione atomica che spazzasse via tutti i macchinari, nessuno sarebbe in grado di fare il ritoccatore. Così si dovrebbe ricominciare tutto da capo».

Leonilda che tirava la carretta

"Leonilda legge il giornale al marito Leopoldo", sd
“Leonilda legge il giornale al marito Leopoldo”, sd

Contrariamente alle mie previsioni, d’estate mi viene ancora voglia di scrivere: non tanto per proporre riflessioni sulla fotografia, quanto per dare spazio ad alcune biografie.
Oggi tocca a Leonilda Prato, nata nel 1875 nel cuneese, a Pamparato. Posseggo un interessante volume che le è stato dedicato: Lo sguardo di Leonilda – Una fotografa ambulante di cent’anni fa, curato da Alessandra Demichelis e pubblicato nel 2003 da Più Eventi edizioni, in occasione di una mostra monografica organizzata dall’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea della provincia di Cuneo, la provincia granda, come si dice in Piemonte.
Attraente, intraprendente e libera, Leonilda si fidanzò con Leopoldo, un bel ragazzo del suo paese, che, in seguito, sposò contro il volere di genitori. Leopoldo, a causa di due incidenti, perse fin da giovane l’uso della vista, ma non smise mai di condividere con la moglie la passione per la musica, associata al desiderio di una vita nomade. Lei, la “Nilda”, suonava la chitarra, lui la fisarmonica. Partirono insieme. Ottennero in Svizzera il patentino per poter fare musique sur rue e distribuire le “pianete” della buona sorte. Una donna piacevole con un marito cieco, entrambi cantanti e suonatori: la coppia  “funzionava”.
Poi, in un Cantone del Vaud, presso un artigiano, Leonilda la curiosa conobbe la fotografia e se ne innamorò. All’attività di cantastorie abbinò quella di fotografa ambulante. Attività creativa e – con il tempo – redditizia: strumenti pesanti da trascinarsi appresso, non leggeri come una chitarra, certo, eppure strumenti che le permettevano di guardare il mondo e gli altri da una prospettiva diversa. Irresistibile.  Lei trasportava i materiali, lui aveva imparato con il tatto a smontare e rimontare gli apparecchi e ad affiancarla nello sviluppo dei negativi.
Suggestiva la descrizione della Demichelis: «Doveva essere uno spettacolo insolito, per la gente di quei luoghi, vederli arrivare carichi degli attrezzi del mestiere, lui col cappellaccio e l’aspetto da pirata, lei minuta al suo fianco, in nulla diversa nei tratti del viso e dell’abbigliamento dalle donne di montagna che incontrava, ma risoluta e capace di montare cavalletto, banco ottico e fondali e di organizzare sulla strada un vero studio fotografico, usando la fantasia laddove la mancanza di mezzi lo richiedeva».

Leonilda Prato, "Ritratto di donna", sd
Leonilda Prato, “Ritratto di donna”, sd

Il successo la portò anche a fotografare la borghesia d’Oltralpe, ma, con la nascita dei figli e il peggioramento delle condizioni di salute del marito, quell’avventuroso girovagare dovette lasciare il posto a una dimora fissa e a una bottega di merceria. La fotografia, però, continuò ad accompagnarla fino a quando, con la morte di Leopoldo e nuovi cambi di residenza, per Leonilda giunse il momento di accantonare la fotocamera e di avviare produzioni più redditizie, ovvero un allevamento di galline ovaiole e un piccolo laboratorio di maglieria. Era rimasta sola a sostenere una famiglia numerosa.
Ma la sua storia non poteva terminare così.
Trasferitasi definitivamente nel capoluogo regionale, fu durante l’occupazione tedesca che la “Nilda”, ormai settantenne, riprese in mano la macchina fotografica per aiutare i partigiani a crearsi documenti falsi e per documentare la devastazione dell’archivio del Castello di Torino provocata dal passaggio dei nazisti.
Pochi mesi prima di morire fu ritratta per l’ultima volta da un nipote, solida e serena, seduta al tavolo della sua cucina, investita dalla luce ovattata che entrava da una finestra. Non incontriamo i suoi occhi. Il suo sguardo punta lontano, oltre le pareti di casa, verso un’esistenza di emancipazione femminile, libertà e coraggio che noi – probabilmente –  non riusciamo nemmeno a immaginare.
Che vite intense nascono e sono restituite dalla fotografia! E quanto intensa è stata la tua, esile “Nilda” che, per tutti, tiravi la carretta.

"Leonilda ritratta dal nipote", sd
“Leonilda ritratta dal nipote”, sd

Senza fine

 

Il simbolo dell'infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo
Il simbolo dell’infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo

Nei primi anni Duemila, ora non ricordo con precisione quando, fui inviata a Torino insieme con altri professionisti a due giornate (gratuite) di lettura portfolio organizzate dalla Fondazione italiana per la Fotografia. In quell’occasione, conobbi un vero gallerista illuminato, Raymond Viallon, titolare a Lione dello spazio “Vrais Rêves”. Ci trovammo subito in sintonia e – seduti allo stesso tavolo – invitammo una signora (forse signorina) cuneese, dall’abbigliamento gozzaniano, a mostrarci il suo lavoro, dopo aver notato che tutti gli altri colleghi si rifiutavano di prestarle la dovuta attenzione. Il motivo di tale rifiuto era evidente: la malcapitata teneva tra le mani un blocco di più di trecento fotografie a colori formato cartolina. Non un portfolio, quindi, ma una mole di immagini davanti a cui era facile arrendersi. Io e Raymond non demordemmo e la sorpresa ci ripagò della pazienza quando potemmo finalmente vedere di cosa trattassero le fotografie. Il soggetto era unico: lumache. Lumache che abitavano il suo giardino. Lumache fotografate per oltre un anno, con particolare attenzione al momento dell’accoppiamento. Lumache che avrebbe continuato a fotografare senza darsi una scadenza temporale.
Personalmente, non riesco a sottrarmi al fascino che esercitano alcune ricerche ossessive e spiraliformi e questo aneddoto mi offre lo spunto per una riflessione assai complessa: quando un lavoro fotografico può definirsi infinito? Deve contenere una quantità numerica straordinaria di immagini, ovviamente coerenti fra loro? È necessario che accompagni l’autore per tutto il corso della sua esistenza? O è sufficiente che contenga concettualmente l’idea di infinitezza?
Per tentare di rispondere nel breve e non esaustivo spazio di un blog, inizierò con un paio di esempi estrapolati dalla mia biblioteca.
Il primo ha una copertina monocromatica in tela verde ed è Atlas, di Gerard Richter, acquistato a Prato in occasione della mostra antologica del 1999, volume che mai mi stanco di consultare e che raccoglie 600 immagini tra fotografie, schizzi e ritagli, collezionati nel corso di una consistente porzione di vita. Un’opera in fieri, giustamente definita enciclopedica dai curatori dell’esposizione, ove progettualità, intimità familiare e stralci di informazione si mescolano producendo quello straniamento che solo le grandi imprese intellettuali dal sapore borgesiano sanno provocare.
Il secondo, nuovamente foderato in tela, ma questa volta blu, è un cofanetto che mi è molto caro e che custodisce le schede di Mnemosyne/Atlante, l’ultimo monumentale studio di Aby Warburg, terminato nel 1929 con la morte del suo autore e presentato al pubblico italiano dopo ben settant’anni, a Siena, nel 1998. Studio strabiliante, in grado di coprire la storia dell’iconografia dall’antichità alla modernità e – se esposto – fruibile attraverso stampe fotografiche in bianco e nero montate su pannelli di fattura artigianale. Non una puntuale duplicazione o catalogazione di oggetti artistici e documenti (poiché le catalogazioni, anche se ciclopiche, hanno valenze diverse, come ci insegnano i Becher), ma una densa sequenza immagini che dialogano per accostamento e forniscono combinazioni pressoché illimitate.
Abbandoniamo quindi i progetti in fieri, già accreditati di per sé ad appartenere alla sfera dell’infinito.
Proviamo piuttosto a circoscrivere i numeri e fermiamoci a una cifra comunque importante: cinquecento. Cinquecento sono i ritratti fatti da Alfred Stieglitz alla moglie Georgia O’Keefe e altrettanti i ritratti close up di anonimi newyorkesi scattati dal giapponese Ken Ohara negli anni 60 e pubblicati nel 1970 in un libro dal titolo emblematico: One.
Quale dei due campioni si avvicina di più all’idea di infinito? Opterei senza troppi dubbi per Ohara, mantenendo le riprese di Stieglitz nell’ambito dell’ossessione sì, ma de-finita, di tipo narrativo. La O’Keefe non è sovrascrivibile al suo proprio volto che mostra progressivamente i segni del tempo, né sostituibile con altre figure. Mentre le facce che compaiono in One, sono idealmente moltiplicabili per una quantità smisurata di volte. Non raccontano, non rappresentano. Semplicemente sono e si equivalgono.
Equivalere, essere alternabili: ecco l’azione che, al di là della quantità di immagini, può suggerire il concetto di infinito. Qui Stieglitz è legittimato ricomparire con i suoi cieli, gli Equivalents –  appunto – ed esser seguito – nomen omen – dai 365 cieli dell’Infinito di Luigi Ghirri o dai Seascapes di Hiroshi Sugimoto, statiche porzioni di mari reciprocamente intercambiabili e per nulla identificabili dalle indicazioni geografiche di cui sono corredati.
Senza fine, benché declinato in segmenti differenti, che riescono a vivere autonomamente, può inoltre essere l’oggetto di una ricerca: basti pensare alla produzione di Cindy Sherman interamente e incessantemente dedicata all’autorappresentazione e la messa in scena della donna in genere. Stesso discorso può valere per la produzione di Joan Fontcuberta, tutta pensata in forma di antidoto critico contro la presunta veridicità della fotografia, così come può valere per l’opera omnia di John Hilliard, da sempre incentrata sull’ambiguità e la peculiarità strutturali al mezzo fotografico.
Ricapitolando, alcuni lavori sono imponenti per il numero di materiali che li compongono, ma non “appartengono” all’infinito. Altri invece infiniti lo sono realmente, poiché impegnano una vita intera immutando la loro condizione di progetti in divenire. Altri ancora lo sono poiché, pur non vantando insiemi rilevanti di scatti, fanno leva sull’intercambiabilità delle fotografie, sul loro procedere per quantità teoricamente infinite.
E mentre io termino questo articolo, sono certa che, in un orto delle Langhe, una donna continua a curvarsi sul terreno con una fotocamera, per inquadrare al meglio il lento muoversi delle sue lumache.