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Prigioniere della propria immagine

Anonimo, "Distribuzione del latte", Trino, 1930  (Biblioteca civica di Trino)
Anonimo, “Distribuzione del latte”, Trino, 1930
(Biblioteca civica di Trino)

Per inaugurare la ripresa del blog e proseguire idealmente la discussione nata intorno alle recenti immagini pro-nataliste divulgate dal Governo Italiano, ripropongo un mio saggio giovanile, d’inaspettata attualità, pubblicato sul n.1 anno 19° de “L’impegno”, rivista di storia contemporanea edita dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Vercellese, nel Biellese e in Valsesia.

Buona lettura, per chi avrà la pazienza di arrivare fino in fondo…

Prigioniere della propria immagine
Fotografie di donne vercellesi prima della Liberazione

Nel 1997 mi vennero affidate la ricerca iconografica e la redazione dei testi per la mostra “Con coraggio e con fatica. Immagini del lavoro femminile in provincia di Vercelli”, curata da Pierangelo Cavanna e organizzata dall’Amministrazione provinciale in collaborazione con l’Istituto. Durante il lavoro di ricerca (che mi portò a consultare archivi pubblici e privati) esaminai più volte fotografie con soggetti femminili, scattate tra il 1930 e il 1943 e riconducibili a una produzione fotografica imposta e controllata dal fascismo, al fine di ottenere materiale adatto a supportare una politica femminile basata su concetti profondamente antifemministi.
La fotografia, «sia perché di più immediata e facile lettura rispetto al testo scritto, sia in virtù della carica di realismo che le è strettamente connaturata»⌈1⌉, diventa, durante la dittatura, il medium adatto a rilanciare e divulgare, anche nei più piccoli centri della provincia, l’usurata immagine di una donna indotta dal regime a ritrovare la propria “specificità femminile”; in ambito familiare come “sposa e madre esemplare”⌈2⌉, in campo professionale come infaticabile lavoratrice votata alla cura del prossimo o come massaia rurale e, in contesti pubblici, come cittadina italiana impegnata nelle opere di assistenza promosse dalla sezione femminile del Pnf. La fotografia fascista, però, con la stessa astuzia con cui ordisce la nuova iconografia femminile, dimentica quell’esigenza di emancipazione e di autodeterminazione avvertita dalle donne già in età liberale e manifestata nel corso degli anni con estenuanti lotte per il diritto al lavoro e migliori condizioni di vita. Esigenza che, in territorio vercellese, ha precedenti fotografici nelle immagini dello sciopero scattate da Andrea Tarchetti a Vercelli nel 1906 ⌈3⌉ o nell’anonima serie dedicata alla lunga agitazione indetta contro i licenziamenti alla Manifattura lane di Borgosesia del 1914 ⌈4⌉.
Questa “nuova” e “smemorata” iconografia femminile, di cui il fascismo millanta il realismo e la valenza estetica, viene promossa e diffusa capillarmente attraverso pubblicazioni come “Il Giornale della donna” (distribuito in tutte le sezioni provinciali dei fasci femminili) che, a partire dai primi anni trenta, decide di aumentare il numero di pagine fotografiche, affiancando alle immagini ufficiali d’agenzia fotografie inviate dalle stesse lettrici. «Chiediamo molte fotografie a corrispondenti, collaboratrici, abbonate – si legge su un annuncio pubblicato nel ’33 – Ce ne devono essere in tutte le pagine del nostro giornale, ma belle, interessanti, significative: fotografie anzitutto dei fasci femminili, delle famiglie numerose, di bambini e bambine, di camerate, di gruppi di lavoratrici, di mostre nelle quali realmente si affermi l’originalità della donna che vive nel clima della Rivoluzione. Ogni fotografia deve rappresentare una realtà viva e operante della vita fascista»⌈5⌉.
Alla donna in quanto soggetto fotografato e al fotografo (dilettante o professionista) in quanto operatore, il regime impone di riflettere e lavorare su una distinzione tra fotografabile e non fotografabile pensata unicamente per essere funzionale al consenso. La nuova icona femminile, costruita secondo una «precisa retorica di gesti e composizioni»⌈6⌉ e proponibile ovunque perché avulsa da ogni contesto storico-sociale locale, fa la sua comparsa nel Vercellese intorno agli anni trenta. Risalgono a quel periodo le prime fotografie di donne in posa con i figli, scattate per attestare l’attività svolta dall’Onmi: moderni monumenti alla madre feconda divulgati, dietro l’apparente scopo celebrativo, per censurare e arginare il fallimento di una politica pro-natalista che, nell’Italia settentrionale, tra il 1931 e il 1935, (periodo in cui vengono scattate queste fotografie), “frutta” al regime il più basso tasso di natalità nazionale, pari a 20,3 nati su mille abitanti⌈7⌉.

Anonimo, "Opera nazionale maternità e infanzia", Santhià, 1930
Anonimo, “Opera nazionale maternità e infanzia”, Santhià, 1930

Nello stesso periodo anche altri soggetti femminili vengono radunati davanti agli apparecchi fotografici e ripresi frontalmente, con gli sguardi che convergono verso l’obbiettivo, per trasmettere una forte coesione e una disciplinata condivisione di valori. In un’immagine scattata a Trino nel 1940 alle infermiere dell’Ospedale, ad esempio, la composizione del gruppo sorridente e stretto intorno al medico, attesta la fiera accettazione di un lavoro che permette di realizzare la femminile attitudine alla cura del prossimo e comporta una “naturale” subordinazione nei confronti della figura professionale maschile posta, ovviamente, al centro dell’immagine.

Anonimo, "Infermiere dell'ospedale", Trino, 1940 circa  (Biblioteca civica di Trino)
Anonimo, “Infermiere dell’ospedale”, Trino, 1940 circa
(Biblioteca civica di Trino)

Ugualmente rivolte alla celebrazione della donna-ancella, sono le immagini dell’interessante ma anonima serie realizzata nel 1940 e contenute in un album della Croce rossa di Vercelli, in cui le crocerossine, seppur inserite in un ordinamento militare di tipo maschile, vengono riproposte nel loro ruolo tradizionale di spontanee dispensatrici di cure ai propri figli o, come in questo caso, in tempo di guerra, ai figli della patria.

Anonimo, "Crocerossine, Vercelli", 1940  (Archivio della Croce rossa italiana, sezione di Vercelli)
Anonimo, “Crocerossine, Vercelli”, 1940
(Archivio della Croce rossa italiana, sezione di Vercelli)

Spunti per la rappresentazione dell’ideale femminile fascista provengono anche dalla scuola, dove la donna svolge diligentemente il suo ruolo di educatrice e la bambina veste la sua prima divisa, partecipa a sfilate e saggi ginnici proprio come i suoi compagni maschi, ma ripete a voce alta che “La Patria si serve anche spazzando la casa”, uno dei punti del “Decalogo della Piccola Italiana”, stilato per inchiodarla al suo futuro di madre e sposa. Scolaresche impettite, maestre fiere di contribuire alla formazione del nuovo popolo fascista ed esibizioni ginniche sono i soggetti preferiti anche dai fotografi vercellesi. Si veda, a campione, la fotografia scattata a Santhià, nel 1930, durante una Festa degli alberi, a un folto gruppo di Piccole italiane irrigidite in una posizione che sacrifica l’entusiasmo infantile all’ordine e alla disciplina e richiama la forma della vegetazione presente sullo sfondo dell’inquadratura.

Anonimo, "Scolaresche alla Festa degli alberi", Santhià, 1930
Anonimo, “Scolaresche alla Festa degli alberi”, Santhià, 1930

Accanto alla produzione di fotografie di impronta prettamente fascista vi sono anche altre immagini, legate alla tradizione fotografica ottocentesca, ugualmente funzionali, però, all’intento di imprigionare la donna nel suo ancestrale ruolo di ieratica custode del focolare. Sono, ad esempio, le fotografie delle cucitrici, che vengono riprese mentre imparano e ripetono gesti pacati e antichi quanto quelli di Penelope, sedute vicino alle loro case, accanto ai loro bambini; stucchevoli oleografie utilizzate come elementi probatori di grazia e serenità da esibire, fra l’altro, come deterrente per chi, in fabbrica o lontano da casa, svolge lavori che il regime definisce svilenti, mascolinizzanti e causa di sterilità.

Giovanni Saettone, "Cucitrici", Trino, 1932  (Biblioteca civica di Trino)
Giovanni Saettone, “Cucitrici”, Trino, 1932
(Biblioteca civica di Trino)

Non solo docili ed esemplari figure femminili popolano la provincia: nel Vercellese, il fascismo deve fare i conti con una scomoda presenza: la mondina, protagonista fino al ’32 di proteste contro riduzioni di salario e per migliori condizioni di lavoro indette sfidando le minacce dei prefetti e degli agrari, ingombrante contraddizione alla politica di sbracciantizzazione e, nello stesso tempo, indispensabile anello della nazionale catena produttiva risicola, favorita dal governo perché meno costosa dell’importazione e lavorazione del frumento. «La mondina – scrive Victoria De Grazia – costituiva un insulto ai benpensanti, resi sensibili dalla propaganda fascista alle condizioni delle madri lavoratrici. Era già abbastanza deplorevole che le ragazze lavorassero nell’acqua melmosa fino alle ginocchia, con le gonne tirate su alla cintola. Ma ancora peggiore era il fatto che le madri abbandonassero lattanti e divezzi alla lotta libera nei paesi vicini o nelle baracche intorno alle cascine. Per di più le lavoratrici del riso avevano il più alto tasso di aborti spontanei di qualsiasi altro gruppo, fatto che i medici attribuivano alla posizione ricurva nell’acqua per ore e ore» ⌈8⌉. Una figura femminile così difficile da gestire non può quindi “sperare” di essere celebrata dalla fotografia. Gli obbiettivi si accorgono della sua presenza unicamente quando è schierata davanti agli emissari di Mussolini, quando deve comparire come elemento spersonalizzato in immagini che documentano particolari fasi della lavorazione del riso o, ancora una volta, quando può essere ripresa nella veste di silente lavoratrice sottomessa alla figura maschile.

Anonimo, "Mondine al lavoro", Vercellese  (Archivio dell'Isrsc Bi-Vc)
Anonimo, “Mondine al lavoro”, Vercellese
(Archivio dell’Isrsc Bi-Vc)

All’opposto della mondina-bracciante si colloca la massaia rurale, che lavora accanto al marito e ai figli nella piccola azienda agricola di proprietà. Un modello femminile oggetto di una massiccia campagna fotografica: «Compaiono sui giornali […] le massaie che hanno ottenuto risultati straordinari nell’allevamento e nell’orticoltura, ritratte insieme ai conigli dal pelo bianco e morbido oppure a melanzane, zucche, girasoli di dimensioni gigantesche. Il cliché è sempre lo stesso: al centro la conigliera ed accanto la massaia, che la mostra timidamente sorridente; oppure è la massaia stessa ad assumere una posizione centrale, mentre tiene in braccio i suoi prodotti di dimensioni eccezionali»⌈9⌉. Un cliché adottato anche da un fotoamatore di Santhià che, nel 1943, scatta, senza fini propagandistici, una fotografia destinata all’album di famiglia, del tutto simile a quelle pubblicate dai giornali di regime.

Anonimo, "Donna con conigli", Santhià, 1943, Santhià (collezione privata)
Anonimo, “Donna con conigli”, Santhià, 1943, Santhià (collezione privata)

Il fallimento delle politiche femminili fasciste, insieme con la tenace adesione di diverse donne agli ideali della Resistenza, occasione per cercare una personale liberazione nella Liberazione, ci impongono oggi una rilettura delle immagini prodotte dalla retorica di regime, che tenga conto di quell’antico carico di frustrazioni e desideri femminili, congelati dalla dittatura ed esplosi durante la Liberazione e il dopoguerra, completamente assente da tutta la produzione fotografica del ventennio.
Nel ’45 la partigiana Soreghina scriveva: «Ora ci accorgiamo di avere un’anima complicata, inquieta, tormentata, un cuore difficile a comprendersi, che batte troppo presto e troppo presto inutilmente: abbiamo l’anima dei ventenni che si guardano attorno e hanno bisogno di qualcosa a cui attaccarsi e non sanno ancora se deve essere l’amore o la patria o un’idea, un sogno lontano»⌈10⌉.
Nonostante un indottrinamento passato attraverso cumuli di fotografie.

 

Note
1 Silvia Salvatici, Modelli femminili e immagine della donna attraverso le fotografie della stampa fascista, in “Aft. Rivista di Storia e Fotografia”, a. IX, n. 18, dicembre 1993.

2 Parte del titolo del noto saggio di Piero Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia e politica delle donne e della famiglia durante il fascismo, Firenze, Guaraldi, 1975.

3 Su Andrea Tarchetti si veda Pierangelo Cavanna – Mimmo Vetrò, Andrea Tarchetti, notaio. Fotografie 1904-1912, Vercelli, Comune, Assessorato alla Cultura, 1990.

4 Sullo sciopero alla Mlb si vedano Antonino Pirruccio, Borgosesia 1914. Sciopero alla Manifattura Lane, Borgosesia, Isr Vc, 1983.

5 “Il Giornale della donna”, 28 febbraio 1933.

6 Arturo Carlo Quintavalle, Il lavoro e la fotografia, in Aris Accornero – Lucas – Giulio Sapelli (a cura di), Storia fotografica del lavoro in Italia 1900-1980, Bari, De Donato, 1981, ora in A. C. Quintavalle, Messa a fuoco. Studi sulla fotografia, Milano, Feltrinelli, 1983.

7 Un secolo di statistiche italiane Nord e Sud, 1861-1961, a cura dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), Roma, 1961, p. 79, tav. 77.

8 Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993, p. 252.

9 S. Salvatici, art. cit., p. 56.

10 Adriana Barbaglia, Figure silenziose. Mila, in “La Stella Alpina”, 23 settembre 1945, pubblicato in Ester Barbaglia, Quand’eri Soreghina, Varallo, Zanfa, 1968, pp. 124-125, brano tratto da Ersilia Alessandrone Perona, “La penna è l’arma del pensiero”. Scritture femminili sulla Resistenza biellese e valsesiana, in “l’impegno”, a. XV, n. 1, aprile 1995, p. 27, numero monografico dedicato agli atti del convegno Le donne vercellesi, biellesi, valsesiane nell’ antifascismo, nella guerra e nella Resistenza, Santhià, 10 dicembre 1994.