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Vedere attraverso

© Giorgio Giovanni Maria Jano, "Venezia, Chiesa dei Frari", 2000
© Giorgio Giovanni Maria Jano, “Venezia, Chiesa dei Frari”, 2000

Ewrin Panofsky nel suo intramontabile saggio “La prospettiva come forma simbolica”, scritto nel 1927 per i “Vortäge” dell’Istituto Warburg, ci induce a non dimenticare che la prospettiva piana, collaudata nel Rinascimento e perfezionata nei secoli a venire, pone le sue fondamenta su due dati essenziali: «innanzitutto che noi vediamo con un occhio immobile, in secondo luogo che l’intera sezione piana della piramide visiva possa valere come resa adeguata della nostra immagine visiva». Bene, è altrettanto risaputo, continua Panofsky, che «entrambi questi presupposti rappresentano un’ardita astrazione della realtà», poiché strutturando lo spazio come «infinito, costante e puramente matematico» si ottiene una forma «addirittura antinomica rispetto a quella dello spazio psicofisico». Tradotto in termini più semplici, la prospettiva piana, su cui per altro si basa la quasi totalità delle immagini fotografiche prodotte meccanicamente, ci impone una visione assai lontana da quella naturale.
La nostra coscienza considera attendibile qualcosa di diverso da ciò che il nostro occhio vede fisiologicamente. In primis, sottolinea lo studioso tedesco, «essa prescinde dal fatto che noi non vediamo con un occhio fisso, bensì con due occhi in costante movimento e che ciò conferisce al “campo visivo” una forma “sferoide” (…) infine essa trascura il fatto importantissimo che in questa immagine retinica (…) queste forme sono proiettate non su una superficie piana bensì su una superficie concava». Ecco quindi ampiamente giustificata la pertinenza dell’aggettivo “simbolica”, coniato da Ernst Cassirer e subito preso in prestito da Panofsky.
Non solo gli artisti europei del Quattrocento e del Cinquecento, con significative difformità di risultati fra Europa del Sud e del Nord, si applicarono allo studio dell’”item perspectiva”, ovvero del “vedere attraverso”, secondo una definizione di Albrecht Dürer. Pure gli antichi, infatti, si spesero in dissertazioni e sperimentazioni a tale proposito. Con una differenza sostanziale: essi erano molto più interessati a restituire immagini vicine per natura alle «curvature del nostro mondo visivo» (Panofsky op. cit.).
Ora, queste stringate considerazioni introduttive mi riportano alla mente tre affermazioni che da sempre mi affascinano e che coinvolgono un poeta-saggista e due fotografi.
Andiamo in ordine cronologico: nel 1938 André Breton, surrealista, si chiedeva: «quale significato attribuire a quel meccanismo dell’occhio che permette di passare dal potere visivo al potere visionario»?
Sul finire degli anni settanta, il fotografo Paolo Monti – che, occorre ricordarlo, si applicò pure alle tecniche off camera – auspicava: «un occhio nuovo per cose antiche» ed esortava i fotografi a essere «contemporaneamente visivi e visionari».
Nello stesso periodo, attingendo direttamente dalla Bibbia e parafrasando il versetto 9 del Libro dell’Ecclesiaste, Luigi Ghirri dichiarò che non vi era «nulla di antico sotto il sole».
Visione, visionarietà e antichità convergono sia nella premessa che nelle tre citazioni proposte e mi pare possano far riflettere seriamente chi pratica la fotografia, a vario livello.
Cominciamo da quell’essere “visivi” di squisita derivazione prospettica che, a lungo andare, ovviamente secondo il mio parere, si è trasformato da potere e consapevolezza dello sguardo a ingenua maniera fotografica, maniera che traduce, ma mai declina con incisività e consapevolezza, una quantità spropositata di immagini.
Agganciamo adesso la visione alla visionarietà, che non è mero vaneggiamento, ma, come chiarisce Henri Focillon ne L’estetica dei visionari, l’attitudine che alcuni uomini posseggono e che permette loro di non solo di vedere gli oggetti, ma di visionarli, con estrema lucidità.
Ecco: nel momento in cui si usa una fotocamera, strumento che è di fatto una protesi visiva, penso che il verbo visionare sia assai più stimolante del semplice vedere.  Qui, la domanda di Breton e l’invito di Monti trovano il senso più compiuto. E lo trovano pure le parole di Panosfky, che sollecitano chiunque si occupi di immagine a riflettere su quante discrepanze esistano tra ciò che il nostro occhio vede quando è nudo e quando invece è supportato da un’apparecchiatura che si serve di una “forma simbolica” quale è appunto la prospettiva piana.
Infine, concentriamoci per un attimo sul termine “antico” rispolverato tanto da Monti quanto da Ghirri. Non assumiamolo come sinonimo di vetusto, ma come rimando colto all’antichità. Cogliamolo, se abbiamo la fortuna di intuirlo sotto il sole. Non dimentichiamo che la prima riflessione sull’impronta lasciata da un oggetto su una superficie sensibile alla luce si deve ad Aristotele e che la fotografia, lungi dall’essere un’invenzione, fu la strategica e politica messa a punto di un lunghissimo e complesso processo speculativo germogliato nella classicità.
Ciò che vi suggerisco, allora, è di superare la “dipendenza” dall’ortogonalità. Senza addentrarsi in altri ambiti concettuali e restando ancorati agli  autori finora menzionati, è proprio l’imitatissimo Ghirri con Atlante, lavoro da cui è spazzato via ogni riferimento prospettico, a venirci in soccorso: «(…) man mano che spariscono i nomi dei luoghi – oceano, isola, vulcano – spariscono meridiani e paralleli, numeri, il paesaggio diventa naturale. Non viene più evocato ma si spiega davanti, come se sotto i nostri occhi, una mano sostituisse il libro con un paesaggio reale».
Ove possibile, quindi, e ove non si cada nell’errore tecnico, cercate di essere concavi, convessi, storti, morbidi, sinuosi, curvi, rotondi, perfino illusoriamente sferici. Pescate dalla storia della visione, che spesso è storia di un’umanità vivace e straordinariamente dotata di pensiero.
Del resto, è risaputo, ci si fa meno male a rotolare che a cadere dall’alto.

ps. Ringrazio l’amico, nonché coltissimo e visionario fotografo, Giorgio Giovanni Maria Jano per avermi prestato una sua immagine a corredo del mio articolo. Sono convinta che, osservandola, offrirà ulteriori stimoli ai lettori.

 

 

Dove sei?

© Ottavia Castellina, dalla serie, "Here I am again", 2008
© Ottavia Castellina, dalla serie, “Here I am again”, 2008

Giovanni Morelli, altresì conosciuto con lo pseudonimo di Ivan Lermolieff, fu uno storico dell’Arte che visse tra il 1816 e i 1891, studiò in Germania e – soprattutto – mise a punto un sistema comparativo per verificare l’autenticità delle opere e la loro corretta attribuzione. Secondo il “metodo morelliano”, ogni artista trasmetterebbe la propria identità, qualcuno scriverebbe la propria cifra stilistica, a una serie di particolari trascurabili eseguiti meccanicamente. Particolari come unghie, panneggi, lobi delle orecchie e via dicendo.
Va da sé che pittura e fotografia sono pratiche differenti, ma, se ci pensiamo bene, l’eclettico Morelli ci fornisce un orientamento anche per approcciare le immagini realizzate con una fotocamera.
Esistono dettagli che rendano riconoscibile un fotografo? E se esistono, dove si rintanano?
C’è insomma qualcosa che si deposita su ogni fotografia, sfuggendo alla regia attenta di chi preme l’otturatore? Io penso di sì ed è specificamente quello che vado cercando mentre esamino un lavoro. Un po’ come se “grattassi” un’immagine con lo sguardo, andando a frugare nei suoi angoli più dimessi e sperando di trattenere tra le ciglia una traccia “genetica” e non riproducibile di chi l’ha scattata.
Mi affido a una speranza, poiché, purtroppo, non sempre questa ricerca va a buon fine. E se un autore perde o non possiede l’automatismo, ovviamente inconscio, che gli permetta di trasferire la sua intemperanza caratteriale all’interno di un’inquadratura, allora resta solo la maniera. Nemmeno il mestiere, vocabolo a cui poter dare, nella sua attinenza con l’artigianalità, una qualche valenza positiva o creativa. No: rimane unicamente la maniera, vuota, inutile e spesso eseguita male, rimane quel guardare ai “grandi” con l’ottusa presunzione del dilettante della domenica, convinto di essersi portato a casa l’esperienza di Van Gogh solo per esser stato ore sotto la canicola a spremere tubetti di giallo per dipingere un campo di grano (per mera notorietà ho pescato un esempio dalla pittura estendibile a ogni pratica, ça va sans dire).
Ciò non significa che le “citazioni” non siano ben ammesse, al contrario: forme, contenuti o rimandi agli autori che ci hanno preceduto e ci hanno segnato, di norma, arricchiscono culturalmente un lavoro, un testo o una ricerca, ma debbono essere elaborati, non semplicemente copiati. Non basta neppure un’idea originale se declinata secondo schemi ricalcati con passività: qui siamo nell’ambito visuale, ancor prima che concettuale.
La maniera è una scorciatoia. È facile, stagnante, non porta a nulla. Invece fotografare è un continuo e faticoso movimento tra se stessi e il mondo. Un movimento che appartiene all’individualità dello sguardo, alla soggettività, all’irripetibilità di un individuo. Un movimento che, se è sincero, lascia trapelare almeno un indizio riconducibile all’autore, a lui solo.
Snidare un indizio non è semplice, ma l’intuito e un po’ di conoscenza spesso vengono in soccorso. Per scovarlo, chi osserva, come me, interrogherà l’immagine chiedendole: «dov’è?», mentre chi scatta, forse senza mai trovare risposta, interrogherà se stesso chiedendosi: «qual è?».
Domande complesse, imprescindibili e perfino irriverenti, da porsi con la stessa urgenza avvertita da André Breton, quando,  nel 1938, scriveva: «…a quali leggi irrazionali obbediamo, quali segni soggettivi ci permettono di volta in volta di trovare la direzione giusta, quali miti e quali simboli esistono in potenza in un certo amalgama di oggetti, in una certa trama di avvenimenti, quale significato attribuire a quel meccanismo dell’occhio che permette di passare dal potere visivo al potere visionario?».