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From Me to You

Il "Flying Glove" di "Yellow Submarine"
Il “Flying Glove” di “Yellow Submarine”

Pur essendo beatlesmaniaca da sempre, mi sono resa conto solo pochi giorni fa di non aver mai tentato di agganciare un ragionamento sulla fotografia alla straordinaria vicenda dei Fab Four.
Cercando di rimediare, la domanda che mi sono istintivamente posta riguardava l’eventuale e significativa presenza (non in termini numerici) del termine photography e dei suoi derivati all’interno delle loro canzoni.
Gli unici casi in cui è riservato spazio non tanto alla fotografia quanto a delle fotografie sono rappresentati da A Day in the Life e Penny Lane.
Partiamo con  A Day in the Life, il brano che chiude il lato B del mitico album Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band, album che, fra l’altro, celebrerà il suo cinquantesimo compleanno fra pochi giorni, il 1° giugno: nella prima strofa, le parole,  strizzando l’occhio al vouyeurismo fotografico, si muovono in un climax  che conduce dalla tristezza allo humor nero fino allo splatter: «Oggi ho letto la notizia oh ragazzi/ Di un uomo fortunato che è arrivato a destinazione/ E sebbene la notizia fosse piuttosto triste/ Beh mi è venuto proprio da ridere/ Ho visto la fotografia/ Gli era saltato il cervello in un’auto/ Non si era accorto che era cambiato il semaforo/ Un sacco di gente stava lì a fissarlo/ Avevano già visto il suo volto/ Nessuno era davvero sicuro/ Che fosse della Camera dei Lords». (1)
Sinistre le parole di A Day in the Life, equivoche quelle di Penny Lane. La canzone si apre con un accenno a Bioletti’s, il barbiere ricordato per l’abitudine di esporre in vetrina le fotografie di ogni «testa che ha avuto il piacere di conoscere» (2). I Beatles giocano ovunque con i significati e, in questo caso, ci si può legittimamente chiedere quale tipo di piacere abbia provato Bioletti nel “tagliare”ed esibire –  la metonimia qui è d’obbligo –  così tante teste. Una frase ambigua che si sposa con un mezzo ambiguo, qual è, strutturalmente, la fotografia. Se non volessimo accontentarci e desiderassimo proseguire il ragionamento tirandolo un po’ per i capelli – siamo dal parrucchiere in fondo – allora potremmo anche aggiungere che ogni primo piano fotografico, porta con in sé un rimando alla decapitazione. Bioletti fotografa le teste che taglia, i ritrattisti tagliano le teste che fotografano.
Esauriti gli scarni esempi estrapolati dalla produzione musicale, come continuare a scrivere di fotografia scrivendo di Beatles? Beh!…posando lo sguardo sulle copertine dei loro dischi, che, valutati in progressione, davvero si presentano come un piccolo ma esaustivo manuale sull’utilizzo (o sulla rimozione) della fotografia nei percorsi di rappresentazione e autorappresentazione.
Intanto occorre tenere ben presente che i quattro musicisti di Liverpool sono noti per aver svolto (quasi) sempre una parte attiva nell’ideazione degli artwork e nella scelta dei professionisti chiamati a realizzarli. Va da sé che il presupposto secondo cui le copertine funzionino come metaracconto di una parabola creativo-musicale è applicabile a ogni gruppo o cantante, ma quando si tratta di Beatles, mi si perdoni il favoritismo, la questione si fa più stratificata  e divertente.
Procediamo con ordine.
Please Please Me, 1962: John, Paul, George e Ringo raggiungono il fotografo scozzese Angus McBean nella sede del palazzo della Emi, situato in Manchester Square e – su sua richiesta – si sporgono sorridenti dalla ringhiera della scala interna. L’immagine riveste particolare interesse non tanto se presa singolarmente, quanto se abbinata a un altro scatto altrettanto conosciuto, quello realizzato da Don McCullin nel 1970 nello stesso luogo e con la stessa postura. Lo scatto di McCullin, prodotto originariamente per la copertina di Let It Be,  sarà invece usato due anni dopo lo scioglimento del gruppo per il  Blue Album, secondo volume di una raccolta di grandi successi. Dimentichiamo per un attimo lo slittamento temporale dell’immagine e concentriamoci sul fatto  che essa era stata concepita per il loro ultimo lavoro. Accostiamola alla copertina di Please Please Me:  ciò che emerge, è che l’inizio e la fine dell’avventura beatlesiana sono visivamente segnate da due riprese “gemelle”. L’intero percorso dei Beatles è riassunto e sbarrato da un dittico fotografico, da due immagini coincidenti che aprono e chiudono un cerchio, negando, proprio in virtù di questa circolarità, ogni finale aperto e ogni ipotesi di prosecuzione.

A sinistra, la copertina di "Please Please Me" (1963), a destra, il "Bluea Album" (1972)
A sinistra, la copertina di “Please Please Me” (1963), a destra, il “Bluea Album” (1972)

With the Beatles, A Hard Day’s Night, Beatles for Sale, Help!, Rubber Soul: 1963, 1964 e 1965, ovvero gli anni della fortunata collaborazione con il fotografo Robert Freeman. Ciascuna copertina, squisitamente fotografica, è mirata a ribadire la riconoscibilità della band attraverso immagini in cui non vi è spazio per altri elementi al di fuori dei quattro “ragazzi” (affettuosamente li chiamo così). Nella fissità di una fotografia di gruppo o nell’illusorio movimento offerto da un flusso di fotogrammi, i Beatles diventano progressivamente un’icona, un marchio condiviso, un codice.

Partendo dall'alto a sinistra, le copertine di: "With the Beatles" (1963), "A Hard Day’s Night" (1964), "Beatles for Sale" (1964) e "Rubber Soul" (1965)
Partendo dall’alto a sinistra, le copertine di: “With the Beatles” (1963), “A Hard Day’s Night” (1964), “Beatles for Sale” (1964) e “Rubber Soul” (1965)

E proprio intorno al concetto di codice è costruita la copertina di Help!, copertina in cui i corpi di John, Paul, George e Ringo inviano una richiesta d’aiuto espressa attraverso l’alfabeto semaforico. In realtà ci troviamo di fronte a una mistificazione: le loro posture non corrispondono alle lettere H, E, L, e P,  ma a N, U, J e V. Nessun messaggio subliminale in quella scritta priva di senso, solo il ricorso a un espediente compositivo. Mentire attraverso un mezzo vocato alla menzogna qual è la fotografia: un’iperbole, un pleonasmo o semplicemente un divertissement, qualcosa di irresistibilmente beatlesiano, insomma.

La copertina di "Help!", 1965
La copertina di “Help!”, 1965

Il 1966 segna un profondo cambiamento nella carriera dei Fab Four: la decisione di non esibirsi più dal vivo, di sottrarsi allo sguardo del pubblico, corrisponde a una graduale trasformazione della loro identità, trasformazione che, nel tempo, passerà attraverso al travestimento, al mascheramento e al dissolvimento. La fotografia necessita di una connessione fisica con il suo referente, ma i Beatles ora non vogliono più né essere toccati, né essere osservati senza filtri.
Lo stesso anno, dato non irrilevante, i Beatles conoscono la censura: la Capital Records, in esclusiva per il mercato statunitense, pubblica la raccolta Yesterday and Today, passata alla storia come The Butcher Album. In copertina vi è una fotografia scattata da Robert Whitake per la performance A Somnambulant Adventure in cui quattro componenti della band posano con camici da macellaio tra bambole smembrate e pezzi di carne. Il mercato e il pubblico non sono pronti: la casa discografica si vede costretta a ritirare  le copie distribuite e a rimediare incollando un’immagine “rassicurante” su quella precedente.

A sx la copertina censurata di "Yesterday And Today", a dx la versione reimmessa sul mercato, 1966
A sinistra, la copertina censurata di “Yesterday And Today”, a destra, la versione reimmessa sul mercato, 1966

L’incidente è risolto, ma la strada che conduce a visioni innovative è ormai imboccata. Ecco quindi che nell’artwork di Revolver, artwork con cui l’artista Klaus Voormann si aggiudicherà un Grammy Award, le fotografie dei quattro musicisti non sono che tessere di un mosaico avvolte e inghiottite dalle linee di un disegno, miniature che passano attraverso il foro di un imbuto per esser risputate fuori in forme inedite.

La copertina di "Revolver", 1966
La copertina di “Revolver”, 1966

Come dire, i Beatles sono morti, viva i Beatles! L’anno successivo, ne daranno il triste/lieto annuncio i personaggi convenuti sulla cover di Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
L’immagine, realizzata su indicazioni di Paul McCartney da Peter Blake e Jann Haworth e di nuovo vincitrice di un Grammy, rimanda a due modelli storici piuttosto noti: la serie di ritratti in preparazione del dipinto dedicato ai membri della Libera Chiesa di Scozia di Hill & Adamson e il Pantheon Nadar. Essa presta inoltre il fianco a una riflessione sulla messa in scena, il fotomontaggio, perfino la natura morta (notevole, a questo proposito, il nome del gruppo e il basso di McCartney riprodotti con crisantemi e altri fiori), ma, soprattutto, amplifica e stratifica il concetto di autorappresentazione. I Beatles vi compaiono due volte: nella loro veste  – anzi, nel loro travestimento – attuale e nel loro aspetto degli esordi, icone fra le icone, in forma di simulacro esposto al museo di Madame Tussaud, doppiamente tassidermizzati dalla cera e dalla fotografia.

La copertina di "Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band", 1967
La copertina di “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, 1967

Anche grazie alla fotografia, i quattro musicisti avviano dunque un processo di riscrittura della propria identità, processo senza limiti, teso al confine estremo della metamorfosi. Così, dopo aver riposto nell’armadio le divise di Sgt Pepper, essi ricompaiono in versione zoomorfa sulla copertina del doppio EP Magical Mystery Tour, per nulla provati dall’aver definitivamente annullato la loro fisionomia.

La copertina di "Magical Mystery Tour", 1967
La copertina di “Magical Mystery Tour”, 1967

L’esuberanza immaginifica del 1967 subisce un brusco arresto l’anno successivo, con The Beatles, meglio conosciuto come White Album.
Il White Album, con la sua copertina monocroma e la scritta in rilievo, sembra non lasciare spazio a considerazioni fotografiche. E invece non è così, poiché, al suo interno, sono inseriti quattro ritratti scattati da Richard Avedon e un poster su cui campeggiano, recto e verso, i testi delle canzoni corredati di un collage di scatti piuttosto eterogenei.
Soffermiamoci sui ritratti: quattro primi piani, quattro oggetti. Per la prima volta i Beatles sono scissi ed è proprio la fotografia a dividerli. Il loro lavoro più solistico, prima ancora che dalla musica è sancito da quei ritratti che si estraggono insieme ai vinili. John, Paul, George e Ringo ravvisano l’urgenza di recuperare la propria  individualità anche mediante il recupero dei propri tratti somatici. Nessun espediente e nessun travestimento potranno ormai reinventare un gruppo che si sta fatalmente avviando allo scioglimento.

I ritratti scattati da Richard Avedon contenuti nel "White Album", 1968
I ritratti scattati da Richard Avedon contenuti nel “White Album”, 1968

Tornando a quel percorso circolare a cui ho accennato righe sopra, gli ultimi album dei Beatles, fatta eccezione per Yellow Submarine, considerato a ragione una colonna sonora più che un vero e proprio lavoro, sono illustrati secondo modelli meno complessi e più affini, in sostanza al periodo ‘62-’65.
In Let it be, registrato prima di Abbey Road, ma pubblicato successivamente, la fotografia gioca un ruolo preponderante, poiché al vinile è abbinato un album formato A4 stampato su carta patinata e contenente un esaustivo reportage realizzato da Ethan Russel, reportage da cui provengono le quattro immagini riportate in copertina. Ciò nonostante, ai fini di questo articolo, Let it Be risulta il “prodotto” meno interessante: non vi scorgo – e me ne assumo la responsabilità – spunti che mi permettano di penetrare in maniera più sottile il fotografico, nulla che sia al contempo e inimitabilmente fotografico e beatlesiano.

La copertina di "Let It Be", 1970
La copertina di “Let It Be”, 1970

Diverso il discorso per la cover di Abbey Road, un vero “colpo di coda”: la mattina dell’8 agosto 1969, intorno alle 11, il fotografo  Iain McMillan, scatta sei fotografie dei Beatles intenti ad attraversare le strisce pedonali della strada su cui si affacciano gli studi di registrazione. Le riprese durano poco più di dieci minuti, la scelta ricadrà sul quinto fotogramma. Il risultato? Una sorta di foto ricordo, l’ultima in cui i quattro musicisti compaiono insieme in un’inquadratura: talmente (e finalmente) “accessibile” da diventare un cliché per milioni di turisti non necessariamente beatlesmaniaci.
Sul sito abbeyroad.com, tramite una webcam, oggi è possibile vedere e condividere le fotografie scattate in tempo reale sulla segnaletica orizzontale più famosa al mondo. Essere beatle una volta nella vita… «Io sono lui come tu sei lui come tu sei me e noi siamo tutti insieme» (3), canta Lennon in I’m the Walrus. Ed è attraverso la fotografia che si compie la metamorfosi collettiva: del resto, quale altro mezzo avrebbe saputo interpretare meglio il trionfo del pop?

La copertina di "Abbey Road", 1969
La copertina di “Abbey Road”, 1969

 

(1) I read the news today oh boy/ About a lucky man who made the grade/ And though the news was rather sad/ Well, I just had to laugh/ I saw the photograph/ He blew his mind out in a car/ He didn’t notice that the lights had changed/ A crowd of people stood and stared/ They’d seen his face before/ Nobody was really sure/If he was from the House of Lords.

(2) In Penny Lane there is a barber showing photographs / Of every head he’s had the pleasure to know

(3) I am he as you are he as you are me and we are all together