Posso farti una domanda?

02 - 14 marzo
Io, in bianco e nero, a 8 anni, mentre coloro un album ad acquerelli, 1976

L’Archivio fotografico Luciano Giachetti – Fotocronisti Baita di Vercelli, che ho il privilegio di dirigere da anni, conserva, oltre a centinaia di migliaia di fototipi, anche uno dei fondi fotografici resistenziali più importanti d’Italia.
Nel 2005, in occasione del 60° anniversario della Liberazione, organizzammo una mostra che divenne itinerante. Ove possibile, mi occupavo personalmente delle visite didattiche. Un giorno, in una cittadina del Vercellese, arrivò un gruppo di scolari di terza elementare: raccontai loro della Resistenza, di quali pericoli comportava fotografare e farsi fotografare in clandestinità, del valore della memoria che passa attraverso le immagini. Giunti davanti al ritratto di una staffetta partigiana, dissi: «Sapete bambini, questa signora che ha rischiato tanto, oggi è ancora viva e continua ad andare in bicicletta». A quel punto uno dei miei “uditori” in grembiulino nero alzò con forza la mano e chiese «Scusa, posso farti una domanda?». Al mio «Sì, certo», espresse il suo quesito: «Va bene, quella signora oggi è ancora viva, ma adesso è diventata a colori o è rimasta in bianco e nero?». Cercai di dare la risposta più seria possibile, poiché serissima era la domanda. E mi resi conto di aver ricevuto una lezione sulla fluidità della didattica.
Per quanto un insegnante imposti una lezione, per quanto cerchi di accordarsi con il “respiro” dei suoi allievi, egli dovrà sempre lasciare spazio alla capacità di stupirsi e di interpretare con elasticità (anche multidisciplinare) le esigenze di chi pone una questione. Ciò vale, a mio parere, soprattutto per il “fotodidatta” che bene sa quanto la fotografia, per chi la pratica, sia contemporaneamente un punto di partenza e di arrivo: una sorta di cerchio in cui s’inscrivono esperienze e urgenze.
Il medesimo concetto lo si può applicare a chi una fotografia, invece, la osserva: perché ciò che voleva sapere quel bambino, nella sua ingenuità, non era tanto il passaggio tecnico dal bianco e nero al colore, cosa che gli spiegai ovviamente, ma era se quella signora fosse in qualche modo rimasta ancorata al suo passato monocromo o se si fosse finalmente trasformata in qualcosa di reale. Per lui, il dato principale non era tanto il fatto di esser ancora in vita, quanto piuttosto il fatto di aver assunto i colori della contemporaneità, di essere diventata visibile e perciò percepibile anche da chi aveva otto anni.
Penso infine che la didattica “elastica” o “fluida” si possa sperimentare anche su noi stessi. Fate una prova, voi che come me siete nati in epoca analogica: io l’ho fatta. Prendete una vostra “vecchia” dall’album di famiglia e chiedetevi: «Sono ancora vivo, ma sono rimasto in bianco e nero o sono diventato a colori?». Provate a darvi una risposta che non passi (solo) dalla fotografia. Interrogatevi, non si finisce mai di imparare.

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