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Del vento e della pioggia

 

© Stefano Di Marco, "Normandia", 2004
© Stefano Di Marco, “Normandia”, 2004

In un’intervista rilasciata nel 2007, Roni Horn, artista che apprezzo molto, dichiarava: «Il tempo è una parte importante della nostra vita. È costante nella sua indifferenza nei nostri confronti e comunque imprevedibile, fa sì che tutte le circostanze siano complesse e che in definitiva sfuggano al nostro controllo. A me pare sia essenziale avere qualcosa che ci dice chi siamo, e il clima ha un suo modo per fare proprio questo. Ho sempre preso il tempo meteorologico in modo molto personale. Freud dice che “parlare del tempo è parlare di se stessi”. E io sono attratta dal tempo tanto per quello che è in sé, quanto per ciò che la gente ha da dire a suo riguardo. La bellezza del tempo è che tutti lo condividiamo equamente, e in questo momento nella nostra storia potrebbe trattarsi dell’unica cosa che abbiamo in comune».
Per ciò che mi riguarda, la citazione lucida ed esauriente della Horn, con cui sono in pieno accordo, sarebbe sufficiente a chiudere questo articolo, ma voglio concedermi lo spazio per un’ulteriore digressione foto-meteorologica.
Al di là dei lavori di autori molto conosciuti, che già fornirebbero esempi soddisfacenti, chiunque pratichi i social e osservi il flusso di immagini che li invade, sa che esiste una sorta di stagionalità fotografica a cui pochi sfuggono. Le prime nebbie e la prima neve sono declinate in ogni maniera, così come l’auspicato apparire del sole primaverile, seguito dalle piogge insistenti che sembrano invece tardare l’arrivo dell’estate, dall’immobile canicola di luglio, dai temporali ferragostani e via dicendo, con circolarità.
Il tempo ci spinge a scattare immagini e, di conseguenza, se ben approcciato, potrebbe essere il grimaldello per aprire stanze più intime di noi stessi, abitate da umori, storie e desideri.
Tornando ai nomi noti, sussistono campioni di raro incanto legati alle condizioni meteorologiche, basti pensare, fra tutti, a The Magic Garden during a Summer Shower[Acquazzone d’estate nel giardino incantato] di Joseph Sudek, che confesso essere tra le mie fotografie preferite in assoluto.

© Joseph Sudek, The Magic Garden during a Summer Shower, 1954-1959
© Joseph Sudek, “The Magic Garden during a Summer Shower”, 1954-1959

Ciò che però mi pare più significativo, in un’ottica squisitamente fotografica, è che esista una sostanziale differenza tra il modo di percepire il tempo tra Occidente e Oriente, differenza che ha indubbie ricadute sulla produzione delle immagini.
Ho avuto modo di approfondire l’argomento durante la preparazione del mio laboratorio “Fotografie in forma di haiku”, tenuto lo scorso anno, ma siccome ogni laboratorio è un working progress, ora mi sento di aggiungere una postilla che mi auguro possa essere di qualche interesse.
I giapponesi hanno stilato, nei secoli, un rigoroso lemmario con vocaboli pescati dal serbatoio naturalistico-meteorologico, la cui presenza all’interno di uno haiku, denominata kigo o piccolo kigo, svolge la funzione prestabilita di fornire al lettore un rimando a una delle quattro stagioni. Alla primavera appartengono lo sciogliersi della neve, lo zefiro, la pioggerellina; all’estate il sole di mezzogiorno, la foglia bruciata dal sole, la calura; all’autunno il vento, la nebbia; all’inverno la neve o la tormenta.
Ora, vi sono fotografi occidentali che espressamente si sono ispirati a quei “lievi coaguli di versi”, come li definiva Andrea Zanzotto, per realizzare le loro immagini: da Stieglitz a Weston, da Minor White a Vimercati, per citarne alcuni, ma restano comunque casi isolati, mentre per gli autori nipponici il tempo è quasi sempre – in linea con la loro tradizione poetica –  uno stato impermanente e fluttuante ma indiscutibile, un presupposto da accettare, dal quale farsi sorprendere e con il quale far collimare un altrettanto mutevole paesaggio interiore.

©  Rinko Kawauchi, Untitled,  dalla serie “Illuminance”, 2009
© Rinko Kawauchi, Untitled, dalla serie “Illuminance”, 2009

Al contrario, per noi, più che i fenomeni atmosferici in sé, hanno progressivamente acquisito più importanza le previsioni metereologiche. Prevedere significa affidarsi a un’ipotesi di futuro basata su degli indizi, come ci insegna il dizionario, ma pre-vedere, per chi pratica la fotografia, potrebbe significare anche preparare lo sguardo, prefigurarsi un’immagine.
Un’azione utile? Nel caso specifico, penso di no. Meglio meravigliarsi, non sapere se domattina pioverà o ci sarà il sole, ma affidarsi al caso, ammettere, insieme con Roni Horn, che qualcosa può e deve sfuggire al nostro controllo. Meglio amplificare le nostre capacità sensoriali durante esperienze dirette e inattese, approfittando delle condizioni climatiche, variabili e incostanti, per raccontare, con la fotografia, la caducità e la capacità di rinnovamento che ci rendono umani.
Forse, con il disgelo, come recita uno haiku di Natsume Sōseki (1867-1916), finiremmo per afferrare la grazia di  «Poter rinascere/piccolo…/Pari a violetta».

 

Senza fine

 

Il simbolo dell'infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo
Il simbolo dell’infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo

Nei primi anni Duemila, ora non ricordo con precisione quando, fui inviata a Torino insieme con altri professionisti a due giornate (gratuite) di lettura portfolio organizzate dalla Fondazione italiana per la Fotografia. In quell’occasione, conobbi un vero gallerista illuminato, Raymond Viallon, titolare a Lione dello spazio “Vrais Rêves”. Ci trovammo subito in sintonia e – seduti allo stesso tavolo – invitammo una signora (forse signorina) cuneese, dall’abbigliamento gozzaniano, a mostrarci il suo lavoro, dopo aver notato che tutti gli altri colleghi si rifiutavano di prestarle la dovuta attenzione. Il motivo di tale rifiuto era evidente: la malcapitata teneva tra le mani un blocco di più di trecento fotografie a colori formato cartolina. Non un portfolio, quindi, ma una mole di immagini davanti a cui era facile arrendersi. Io e Raymond non demordemmo e la sorpresa ci ripagò della pazienza quando potemmo finalmente vedere di cosa trattassero le fotografie. Il soggetto era unico: lumache. Lumache che abitavano il suo giardino. Lumache fotografate per oltre un anno, con particolare attenzione al momento dell’accoppiamento. Lumache che avrebbe continuato a fotografare senza darsi una scadenza temporale.
Personalmente, non riesco a sottrarmi al fascino che esercitano alcune ricerche ossessive e spiraliformi e questo aneddoto mi offre lo spunto per una riflessione assai complessa: quando un lavoro fotografico può definirsi infinito? Deve contenere una quantità numerica straordinaria di immagini, ovviamente coerenti fra loro? È necessario che accompagni l’autore per tutto il corso della sua esistenza? O è sufficiente che contenga concettualmente l’idea di infinitezza?
Per tentare di rispondere nel breve e non esaustivo spazio di un blog, inizierò con un paio di esempi estrapolati dalla mia biblioteca.
Il primo ha una copertina monocromatica in tela verde ed è Atlas, di Gerard Richter, acquistato a Prato in occasione della mostra antologica del 1999, volume che mai mi stanco di consultare e che raccoglie 600 immagini tra fotografie, schizzi e ritagli, collezionati nel corso di una consistente porzione di vita. Un’opera in fieri, giustamente definita enciclopedica dai curatori dell’esposizione, ove progettualità, intimità familiare e stralci di informazione si mescolano producendo quello straniamento che solo le grandi imprese intellettuali dal sapore borgesiano sanno provocare.
Il secondo, nuovamente foderato in tela, ma questa volta blu, è un cofanetto che mi è molto caro e che custodisce le schede di Mnemosyne/Atlante, l’ultimo monumentale studio di Aby Warburg, terminato nel 1929 con la morte del suo autore e presentato al pubblico italiano dopo ben settant’anni, a Siena, nel 1998. Studio strabiliante, in grado di coprire la storia dell’iconografia dall’antichità alla modernità e – se esposto – fruibile attraverso stampe fotografiche in bianco e nero montate su pannelli di fattura artigianale. Non una puntuale duplicazione o catalogazione di oggetti artistici e documenti (poiché le catalogazioni, anche se ciclopiche, hanno valenze diverse, come ci insegnano i Becher), ma una densa sequenza immagini che dialogano per accostamento e forniscono combinazioni pressoché illimitate.
Abbandoniamo quindi i progetti in fieri, già accreditati di per sé ad appartenere alla sfera dell’infinito.
Proviamo piuttosto a circoscrivere i numeri e fermiamoci a una cifra comunque importante: cinquecento. Cinquecento sono i ritratti fatti da Alfred Stieglitz alla moglie Georgia O’Keefe e altrettanti i ritratti close up di anonimi newyorkesi scattati dal giapponese Ken Ohara negli anni 60 e pubblicati nel 1970 in un libro dal titolo emblematico: One.
Quale dei due campioni si avvicina di più all’idea di infinito? Opterei senza troppi dubbi per Ohara, mantenendo le riprese di Stieglitz nell’ambito dell’ossessione sì, ma de-finita, di tipo narrativo. La O’Keefe non è sovrascrivibile al suo proprio volto che mostra progressivamente i segni del tempo, né sostituibile con altre figure. Mentre le facce che compaiono in One, sono idealmente moltiplicabili per una quantità smisurata di volte. Non raccontano, non rappresentano. Semplicemente sono e si equivalgono.
Equivalere, essere alternabili: ecco l’azione che, al di là della quantità di immagini, può suggerire il concetto di infinito. Qui Stieglitz è legittimato ricomparire con i suoi cieli, gli Equivalents –  appunto – ed esser seguito – nomen omen – dai 365 cieli dell’Infinito di Luigi Ghirri o dai Seascapes di Hiroshi Sugimoto, statiche porzioni di mari reciprocamente intercambiabili e per nulla identificabili dalle indicazioni geografiche di cui sono corredati.
Senza fine, benché declinato in segmenti differenti, che riescono a vivere autonomamente, può inoltre essere l’oggetto di una ricerca: basti pensare alla produzione di Cindy Sherman interamente e incessantemente dedicata all’autorappresentazione e la messa in scena della donna in genere. Stesso discorso può valere per la produzione di Joan Fontcuberta, tutta pensata in forma di antidoto critico contro la presunta veridicità della fotografia, così come può valere per l’opera omnia di John Hilliard, da sempre incentrata sull’ambiguità e la peculiarità strutturali al mezzo fotografico.
Ricapitolando, alcuni lavori sono imponenti per il numero di materiali che li compongono, ma non “appartengono” all’infinito. Altri invece infiniti lo sono realmente, poiché impegnano una vita intera immutando la loro condizione di progetti in divenire. Altri ancora lo sono poiché, pur non vantando insiemi rilevanti di scatti, fanno leva sull’intercambiabilità delle fotografie, sul loro procedere per quantità teoricamente infinite.
E mentre io termino questo articolo, sono certa che, in un orto delle Langhe, una donna continua a curvarsi sul terreno con una fotocamera, per inquadrare al meglio il lento muoversi delle sue lumache.

 

 

Due cuori e un capanno

 

Tarzan, Cheetah e Jane
Tarzan, Cheetah e Jane durante le riprese di un film

Qualche settimana fa, accompagnata da due cari amici che praticano seriamente la fotografia, Gabriella Martino e Gianni Rossi, ho visitato una piccola oasi naturalistica appena inaugurata e adibita al birdwatching. Il percorso, guidato, prevedeva l’accesso ai capanni ove i fotografi, dopo aver pagato una tariffa oraria, potranno appostarsi in attesa di un esemplare disposto inconsapevolmente a posare per loro. Capanni, o meglio piccole casette confortevoli, calde e dotate di un grande vetro che si affaccia direttamente sull’habitat di pregevoli uccelli stanziali e migratori.
Suscitando spesso dubbi tra i miei colleghi, dubbi che ancora non mi sono chiari, da anni presto molta attenzione alla fotografia naturalistica, poiché ne intravvedo le potenzialità autoriali. Eppure il pomeriggio trascorso in quel piccolo spazio incontaminato mi ha lasciato perplessa e irritata.
Credo fermamente nella componente esplorativa della fotografia, che certo va ben oltre la sua applicazione squisitamente scientifica: ed è in particolare quando essa si rivolge a soggetti botanico-faunistici, che ne riconosco le origini risalenti alle primitive incisioni rupestri, indiscusse eredità ancestrali del nostro bisogno di esprimerci e comunicare. L’Homo sapiens ha da sempre sentito la necessità di rappresentare e rappresentarsi, di rapportarsi creativamente, insomma, con la realtà che lo circonda, attribuendole significati e simbologie sovente “saccheggiate” proprio dal mondo animale o vegetale.
Per questo motivo, penso quindi che il segreto per una buona fotografia (non solo naturalistica) non derivi tanto dal possedere un adeguato corpo macchina, quanto piuttosto nel divenire noi stessi corpo dell’ambiente che decidiamo di sondare. Tradotto in termini più semplici: chi ha una visione antropocentrica dovrebbe cercare di farsi uomo tra gli uomini, chi, al contrario, allarga la sua ottica all’intero mondo naturale, dovrà sforzarsi di farsi animale tra gli animali, o albero in una foresta.
Sostare/spiare ore dietro a uno schermo, comodamente seduti su una morbida poltroncina girevole, sperando che un airone distenda le sue ali per essere catturato da un obiettivo, invece, è altro e ha una componente voyeuristica molto marcata. Componente che certo appartiene alla fotografia, che di per sé non è disprezzabile e che ha fornito esempi notevoli nella storia della fotografia e delle arti visive in genere, ma che resta comunque altro.
Consideriamo che cose e attitudini reclamano di essere chiamate con il loro nome. E che amare la natura, amarla fino a volerla interpretare con la fotografia è materia su cui riflettere senza concederci sconti.
Lo insegna egregiamente Jean-Christophe Bailly, ne Il partito preso degli animali, libro suggeritomi felicemente da Gabriella: «(…) immaginare quello che accade e quello che si prova – quello che c’è – quando, per esempio, si sta a trenta metri dal suolo e si salta di ramo in ramo, oppure che cosa c’è e cosa comporta avere un corpo che pesa venti grammi e percorre migliaia di chilometri (le rondini) o, all’opposto, averne uno di parecchie tonnellate con cui entrare nell’acqua di un fiume (gli elefanti). E via dicendo. Dunque immaginare le sensazioni che provano gli animali, da dove derivano le loro gioie e le loro frustrazioni. Non perché può essere divertente, ma perché da ognuno di questi percorsi la nostra visione del paesaggio riemerge allargata, arricchita, emancipata».
Capite bene che tutto ciò, al riparo e dietro a un vetro, non è possibile.

Ti scrivo una fotografia

© Sandro Bini "#41" dalla serie "Archidiario", 2015
© Sandro Bini “#41″ dalla serie “Archidiario”, 2015

Ti scrivo una fotografia: suggerimenti, modelli, metodi, forme e grammatiche di base.

abc
Parte prima/Foto singole, dittici, trittici.
Un segno di interpunzione: un punto, una virgola, raramente un punto e virgola.
Un geroglifico.
«Un graffito inesplicabile perché del tutto inutile», come canta Ivano Fossati.
Un glifo.
Una runa.
Un nodo parlante degli Incas.
Un logogramma.
Un epigramma.
Un codice.
Un referto.
Un documento.
Il proprio nome e quello degli altri.
Un emoticon.
L’acronimo intraducibile di un writer.
Una scritta in braille.
Una metafora. Meglio ancora, una kenningar islandese citate da Borges nella Storia dell’eternità (esempi: “rocce della parola” = i denti; “tetto della balena = il mare; “pavimento delle tormente” = la terra; “ruscello dei lupi = il sangue).
Una terzina (di Dante, fra le più conosciute: “Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e com’è duro calle/ lo scender e ‘l salir per altre scale”).
Un sillogismo (suggerisco quelli di Lewis Carrol).
Uno haiku. Anche un solo ideogramma.
Un pops di Kerouac.
Una poesia su tre righe di Ungaretti.

Parte seconda/Una piccola sequenza (dalle 4 alle 12 immagini su per giù)
Un pensierino ripescato su un quaderno di prima elementare.
Una filastrocca o una conta per giocare a nascondino (per chi ama il non sense o la fotografia en abyme).
Una fiaba.
Un curriculum vitae (CVE standard, massimo due pagine).
Un appunto.
Una nota a margine.
Un apoftegma (più “visivo” di un aneddoto).
Un racconto breve (due Raymond: Carver, fra tutti, ma pure Queneau in Esercizi di stile).
Una lettera di Viktor Šklovskij in Zoo o lettere non d’amore.
Una missiva qualsiasi.
La lista della spesa.
Il testo di una canzone.
Una poesia (cfr. Wislawa ).
Un riassunto.
Una quarta di copertina.
Un foglietto illustrativo.

Parte terza/Una lunga serie, un progetto perennemente in fieri (dalle 20 immagini in avanti, senza un limite)
Un romanzo.
Un diario.
Una biografia/un’autobiografia.
Un saggio.
Un testo teatrale.
Una sceneggiatura cinematografica.
Un testo di anatomia, botanica, astronomia e via dicendo.
L’anagrafe cittadino (anche canino).
L’elenco toponomastico di una città.
Il taccuino di un esploratore.
Gli atti di un processo.
Un libretto d’istruzioni in più lingue.
Il catalogo dei prodotti un’azienda.
Le sigle alfanumeriche di un inventario (cfr. di una biblioteca).
Tutto ciò che prevede un eccetera… in calce

Perdonate l’elenco incompleto: il suffisso grafia, in una foto, continua ad avere un peso e un senso ben più estesi di questa mia modesta manciata di voci.

Fedeli alla linea

© Mauro Quirini, dalla serie "Non ricordo dove", 23 aprile 2014
© Mauro Quirini, dalla serie “Non ricordo dove”, 23 aprile 2014

Nel saggio Nature, pubblicato nel 1836, ovvero tre anni prima della messa a punto della fotografia, Ralph Waldo Emerson scriveva: «La prosperità dell’occhio sembra esigere un orizzonte. Non saremo mai stanchi finché riusciremo a guardare lontano abbastanza».
Ora, che si parli di pittura, fotografia, cinema, insomma di arti visive in generale, la linea dell’orizzonte è materia che, all’interno di un’inquadratura, dovrebbe essere trattata con la dovuta cura. Anzi, per il flusso di immagini che mi capita di vedere quotidianamente, affermerei con decisione che dovrebbe essere trattata con maggiore cura.
Anche se questo spazio tratta di fotografia, non a sproposito ho esordito con una citazione che ne precede l’immissione sul mercato: suggerisco infatti a coloro che usano una fotocamera e che hanno a che fare con gli orizzonti, di andare a ripescare quantomeno un spicchio di storia dell’Arte che fornisca indicazioni preziose in merito. La pittura olandese, per estrapolare un esempio su tutti, che molto ha da insegnare sull’argomento.
Oppure, tornando in epoca contemporanea, di leggere il “sempreverde” Panofsky, che nel 1984, a tale proposito spiegava: «L’orizzonte dipinto, che costituisce l’altezza d’occhio di chi osserva, determina se le linee di fuga si dispongano in senso ascendente o discendente (…)».
Determina perciò – e non tanto in senso fisico, quanto simbolico – il nostro rapporto con la realtà che osserviamo. Rapporto che, per poter essere credibile, deve essere coerente.
Non basta dunque la distinzione da manuale per dilettanti tra landscape (immagine in cui la linea di orizzonte lascia più spazio alla terra) e skyscape (immagine in cui si concede maggior porzione al cielo).
Pensiamo solo a come Joseph Koudelka “straziava” gli orizzonti in Caos, portandoli a storture vertiginose ma funzionali, confrontiamoli con quelli perfetti degli Seascape di Hiroschi Sugimoto.
Ragioniamoci su, recuperiamo significati che possano essere utili alla nostra progettualità.
E nella riflessione, abbandoniamo la fotografia ancora una volta, andiamo a scoprire l’etimologia di questa parola, che deriva dal greco e descrive un cerchio, ancor prima che una linea. È ciò che ci circonda, che delimita il nostro sguardo.
L’orizzonte è un concetto, un simbolo, una metafora: può essere ristretto, allargato, perduto, sinonimo di futuro, caricato di disillusioni o speranza. È una miniera che contiene ricchezze da estrarre e applicare con cautela.
Persino le neuroscienze guardano alla nostra intelligenza emotiva come a un paesaggio dall’orizzonte personalissimo e cangiante.
Assumiamo la linea dell’orizzonte come una buona medicina, allora, senza dimenticare di leggerne attentamente le modalità d’uso più consone al mantenimento del nostro stato di salute fotografica.

 

Mi fa(ccio) un “Autographer”?

 

Monile "Lover's eye" di epoca Vittoriana
Monile “Lover’s eye” di epoca Vittoriana

L’hanno chiamato Autographer ed è un aggeggino che si può portare al collo, alla cintura o su un cappello.
Un gingillo di 58 grammi, ma, anzitutto, una fotocamera in grado di realizzare circa 200 immagini al giorno, decidendo in autonomia quando scattare.
Ne parla acutamente Giovanni Fiorentino nel suo libro Il flâneur e lo spettatore – La fotografia dallo stereoscopio all’immagine digitale (Franco Angeli, 2014), descrivendone le caratteristiche tecniche e le funzioni: «L’apparecchio scatta indipendentemente dall’indossatore grazie a una serie di sensori e a un GPS integrato che lo fanno reagire a una varietà di stimoli esterni. In particolare il movimento, i cambiamenti nella luce e nella temperatura, la prossimità di oggetti e persone».
Lo ammetto, quando ho letto di Autographer, l’ho subito desiderato. Per ragioni diverse: la prima – evidentemente – è stata quella di poter togliere di mezzo la mia volontà e demandare la realizzazione di una fotografia a una sensorialità diversa, ormai “arrugginita” o sovente controllata. La seconda, sempre inscritta nella sfera dei sensi e della corporeità, quella di poter affidare a regioni fisiche differenti dagli occhi il compito di catalizzare gli stimoli esterni.
Perché nel posizionare il” fotomonile”, saremmo comunque noi a decidere quale parte anatomica far interagire con il mondo.
Cosa registrerebbero il mio petto, i miei fianchi o la caviglia durante l’arco di un’intera giornata?  Non conosco certo la risposta, ma la domanda mi affascina e pure molto. Allora continuo a interrogarmi e mi chiedo: avere questo tipo di ambizione, non è infondo un ulteriore e supremo atto di narcisismo? Un atto che coniuga l’inconscio tecnologico direttamente e in maniera fatale e perturbante con il nostro inconscio.
A ben vedere, il termine Autographer, si accorda con l’autografo chiesto alla star di turno, un segno su carta bianca che ha un valore profondamente feticistico.
Il ciondolo resta ancora nella lista dei miei desideri. Devo solo capire se davvero me la sento di inciampare in un altro stagno, sedotta da ciò che di inedito potrebbero restituirmi alcune zone inesplorate di me stessa.

L’odore del circo

 

© Enrico Prada. senza titolo, 2015
© Enrico Prada, Senza titolo, 2015

Nella mia cittadina arrivano piccoli circhi, baracconi tanto cari a Federico Fellini, cenciosi, decadenti, con molta polvere e poche stelle.
Normalmente si installano in un piazzale di fronte a casa mia. Se ne sente subito l’odore, inconfondibile e greve.
In quei giorni, m’invade un senso di pena profonda. Così, non riesco neppure ad affacciarmi alla finestra per guardare gli stretti recinti degli animali tristi o gli indiani con le livree rosse e troppo larghe che accolgono gli spettatori, mal celando la loro magrezza dietro ai denti bianchi.
Al piccolo circo, sottraggo pure l’udito e non solo la vista, perché davvero mi commuovono, d’una commozione lacerante, sia le musiche delle finte orchestrine, sia la voce da “Settimana Incom” con cui il presentatore commenta i numeri di trapezisti, clown e scimpanzé ballerini.
Ma resta l’odore: anche quando i carrozzoni se ne vanno. E quell’odore porta lontano il mio naso “urbano”, evocando suggestioni tigrate e misteriose, che sostituiscono la tristezza con un esotismo da romanzo salgariano.
Per me, certa fotografia (certa, non tutta, s’intende), funziona unicamente se reca con sé l’odore del circo, se me lo restituisce.
Funziona se la si deve non tanto osservare o raccontare, ma annusare. Funziona se è indizio minimo di qualcosa che è accaduto, se nega lo sguardo all’azione eclatante per evocarla in maniera differente, avventurandosi su piste poco battute.
È la fotografia del giorno dopo, dell’attimo perduto, di chi arriva in ritardo e perde la coincidenza, ma non per questo arresta il viaggio. È la fotografia di chi ha fiuto nel trattare lo struggimento, il dolore o – sul piano opposto – la leggerezza e la felicità con un istinto che è più dell’animale che dell’uomo/fotografo eccessivamente “alfabetizzato”.  Di chi sa leggere i segni e sa lasciar segni indefiniti di sé.
Di chi, insomma, produce con la fotocamera scatti ferini e – deliberatamente – decide se far perdere o ritrovare le proprie tracce allo spettatore.

A ognuno il suo

 

© Nicoletta Nicosia, dalla serie "Babau", 2003
© Nicoletta Nicosia, dalla serie “Babau”, 2003

Ognuno ha i suoi miti. Pure la Fotografia.
In tanti, per spiegarne le origini e il fascino, ricorrono a Narciso, che annegò specchiandosi in una sorgente, rapito da un delirio erotico di auto-ammirazione.
Altri ancora rivedono nello sguardo fatale di Medusa, in quel rimanere “pietrificati per esser stati visti” (Dubois, 1983), la capacità della fotografia di cristallizzare in un solo istante il flusso temporale, sottraendo metaforicamente il soggetto alla propria vita.
Un ulteriore esempio, forse meno noto, è proposto da Oliver Wendell Holmes (che ho già avuto modo di citare in un precedente articolo) in un saggio pubblicato sull’Atlantic Monthly nel 1861 e intitolato “Dipinti e sculture del sole. Con un viaggio stereoscopico attraverso l’Atlantico”.
Siamo ancora nell’Antica Grecia e la storia è quella del giovane Marsia che osò sfidare Apollo esibendosi con il flauto di Minerva. Un affronto pagato dal poveretto con un terribile supplizio inferto per mano dello stesso Apollo, che lo legò a un albero e lo scorticò vivo. Wendell Holmes, per natura lieve ed entusiasta, fornisce della truce vicenda un’interpretazione inedita ma molto interessante: «(…) il dio del Canto era anche il dio della Luce e, con un atto di riflessione, potremmo comprendere il significato di questo mito apparentemente barbaro. Apollo, compiaciuto del suo giovane rivale, lo fa mettere in posa davanti a un cavalletto (l’albero del racconto) e lo fissa in una fotografia, cioè in un’immagine fatta con il sole. Questa sottile pellicola o pelle di luce ed ombra è stata assurdamente intesa come la pelle del pastore».
Debbo ammettere che mi piace pensare alla fotografia come a una membrana luminescente che ci lasciamo appresso: mi rimanda alla muta di certi animali, mi infonde un senso di rigenerazione.
Va altresì ricordato, su un piano assai più truculento, che lo studio delle immagini offre altri campioni di spellati illustri: l’agiografia cristiana annovera san Bartolomeo che tuttora, nelle statue e nei dipinti che lo rappresentano, va portandosi appresso la sua “cotenna”. Lo stesso Buonarroti, nel Giudizio Universale, “usò” la pelle del santo come supporto per incastonarvi un famosissimo e drammatico autoritratto. Abbandonando la pittura e risalendo alla seconda metà del Novecento, se non proprio di scorticamenti, la fotografia è stata testimone di tagli o ferite di vario genere autoprodotte dagli artisti della body art, nel corso delle loro performance.
Lontano da un’esperienza performativa, ma molto attento all’arte contemporanea, Giacomelli stesso definiva i toni fortemente contrastati dei suoi paesaggi come cicatrici che ciclicamente si riaprivano arrecandogli dolore.
Insomma, tornando al mondo classico: Narciso, Medusa, Marsia…che potere mitico ha su di noi la fotografia? Ci fa innamorare perdutamente del nostro ego? Ci pietrifica? Ci scortica lasciandoci sanguinanti? O ci permette di abbandonare tracce fragili come pellicole, rinnovandoci a ogni stagione della nostra vita?

 

Nota a margine: il citato articolo di Oliver Wendell Holmes, è inserito nel libro di Giovanni Fiorentino Il flâneur e o spettatore. La fotografia dallo stereoscopio all’immagine digitale, Franco Angeli, Milano, 2014. Ve ne consiglio la lettura.

Altrove

© Gianni Rossi, "Migratori", 2016
© Gianni Rossi, “Migratori”, 2016

L’importanza del fuori campo in fotografia è uno degli argomenti sui quali non mi stanco di insistere durante i miei laboratori. Lo spazio che si estromette dall’inquadratura è spazio annullato, “materia” invisibile consegnata alla sensibilità incontrollabile dello spettatore. Il fuori campo, che può diventare pure il soggetto principale di una ricerca autoriale e sperimentale, va quindi soppesato con perizia, sia che si pratichi una fotografica narrativo-didascalica, sia che ci si dedichi a lavori più evocativi.
In ogni caso, senza addentrarci in ragionamenti che rinvierò ad altri articoli, l’importanza di inclusioni ed esclusioni è determinata dal fatto che la fotografia ha dei bordi. Bordi connaturati alla fotografia stessa e fatalmente funzionali alla sua riuscita, che devono essere pertanto trattati con rigore formale e – a mio parere – soprattutto concettuale.
Ripescando così l’etimologia della parola “bordo”, che deriva dal francese bord e indica nello specifico l’interno della nave, la mia riflessione odierna sul fuori campo, o sul fuori bordo, approda all’idea di viaggio, anzi, a quella tipologia particolare di viaggio che è il flusso migratorio.
Il tema è complesso e attualmente drammatico, ma tenterò di ricondurlo nei limiti del fotografico, partendo da un cenno leggero, autobiografico e non antropocentrico.
Nella bella stagione, prima dell’imbrunire, ho l’abitudine di ritagliarmi un quarto d’ora in terrazza a osservare le rondini che si rincorrono incessantemente intorno agli edifici che circondano la mia casa.
Le rondini sono esseri a cui appartiene più il fuori campo che l’inquadratura. Quando le si fotografa, si ferma un altrove che è già nel loro sguardo e che non rientrerà mai nel nostro obiettivo. Quel che è conservato o captato dai loro occhi è negato ai nostri. Portano tra le piume porzioni di mondo in cui si muovono mari, scoppiano bombe, si abbattono uragani, cambiano stagioni. Ciò che loro attraversano annualmente (e complessivamente) in volo può solo essere tradotto per noi, in parte infinitesimale, da certe immagini di reportage.
Gli uccelli, ma tutti i migranti, umani compresi – non dimentichiamolo – varcano con fatica soglie che noi ci limitiamo a osservare, a casa nostra, tra i bordi di una fotografia. Non c’è polvere sui nostri occhi, né salsedine a seccarci la pelle o pioggia a inzupparci i capelli.
Siamo reciprocamente fuori campo.
Le rondini che sopravvivono al lungo viaggio, tornano ad annunciarci che la primavera è arrivata. Incuranti di essere simbolo di rinnovamento e buon auspicio. Incuranti di ricambiarci lo sguardo che rivolgiamo loro con una fotocamera. Mai disposte ad arrestare il volo per compiacerci. Per un prezioso istante dentro la nostra ristretta area visiva, perennemente fuori dal nostro campo immaginativo che spesso, come accade in fotografia, sembra essersi perduto per sempre.

Nella fotofattoria

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© Gabriella Martino, dalla serie: “Il nido del cuculo”, 2016

Saranno le vetrine stipate di uova di cioccolato e pulcini di peluche, sarà l’orrenda mattanza di agnelli e capretti in vista dell’abbuffata pasquale, ma il mio pensiero in questi giorni è tornato spesso al contributo coatto che gli animali hanno fornito alla lunga stagione della fotografia.
Così ho provato a immaginare, con un certo imbarazzo per il genere umano, la fattoria ideale del fotografo tra Ottocento e Novecento.
Andiamo con ordine: per giocare alla vecchia fotofattoria occorre spazio.
Anzitutto è necessario costruire un pollaio: era il 1847 quando venne messo a punto il negativo per il processo all’albumina e circa il 1850 quando comparirono i primi positivi. La chiara d’uovo si dimostrò subito un ottimo legante che, mescolata allo ioduro di potassio e al cloruro di sodio, stesa su una lastra e poi immersa in un bagno di nitrato d’argento, dava origine alla formazione di uno strato di cloruro d’argento sensibile alla luce. Ironia della sorte, per restare in tema di pennuti, l’immagine era poi sviluppata in una soluzione di acido gallico. Si stima che in quegli anni, in una fabbrica di Dresda, si utilizzassero quotidianamente circa sessantamila uova per scopi fotografici. Lo stesso accadeva negli Stati Uniti, tanto che l’acuto Oliver Wendell Holmes, nel 1863, dopo la visita a uno stabilimento, a proposito degli sfortunati embrioni, scrisse: «diecimila nascituri, che attendono di cedere il loro prodotto incompleto, sono destinati a perire anonimi al solo servizio del sole, prima che il fato abbia deciso se dovranno essere galli o galline».
Accanto al pollaio, dovrà esserci una conigliera e poco più in là, una vasca per i pesci: il lasso di tempo che andò il 1851 e il 1861 fu il decennio del collodio umido e secco e delle gomme bicromatate. Le colle di pelle di coniglio e di pesce costituivano le gelatine ideali, o “pappe” come le definisce Ando Gilardi nella sua Storia sociale della fotografia, per creare le emulsioni a cui aggiungere gli agenti chimici o semplicemente per trattare le carte troppo acide o “flaccide”. Va detto che quest’ultima operazione è praticata ancora oggi da chi stampa a inchiostro e vuol ottenere supporti con discutibili effetti d’antan.
Posiamo ora la prima pietra per edificare una stalla capiente: nel 1871 Maddox affinò il procedimento alla gelatina al bromuro d’argento, che tuttora sopravvive per quanto concerne l’analogico, dove per gelatina s’intende un brodo cucinato con ossi di animali. Torniamo al gioco, dunque: durante la macellazione è inoltre d’obbligo tenere da parte il fiele di bue, che fu utilissimo per la coloritura a mano dei positivi monocromi. Mentre verso sera, al momento della mungitura, una scodella va conservata per la fotografia: lo zucchero di latte, infatti, che fu adoperato in alcuni casi per la riduzione dei sali d’argento durante il fissaggio, si otteneva proprio lasciando evaporare il siero caseario.
Il fotofattore più eccentrico potrà poi dotarsi di un alveare e provare così la tecnica della melotipia: tecnica d’inizio Novecento a base di miele e argento, che ebbe però scarsissimo successo.
D’estate, nelle brevi vacanze al mare, brevi perché in campagna c’è sempre da fare, pescare qualche seppia sarebbe di grande utilità: in epoca passata, il “talco di seppia” ricavato dal contenuto essicato della vescica del mollusco serviva sia per il fotoritocco, sia per la preparazione delle stampe ai pigmenti.
Ora, trascorsi gli anni, tutti questi fototipi, contenendo sostanze di origine animale, sono diventati dei veri e propri banchetti d’onore per microrganismi affamati. E siccome la fotografia non è eterna, paesaggi, palazzi, i nostri volti sorridenti e i ricordi di una vita potrebbero essere fagocitati (e in parte già lo sono stati) da questi esserini invisibili, in una sorta di nemesi e involuzione darwiniana.
Del resto si sa la sopravvivenza è una lotta e la bellica vicenda umana cominciò con un coltello e forse terminerà con un attacco batteriologico.
Ricreazione finita. La fotofattoria finisce in soffitta con l’avvento del digitale: gli animali, con polmoni o branchie, possono finalmente tirare un sospiro di sollievo.
E noi? O meglio le nostre “nuove” immagini? Chi se le mangerà? Forse il solito molesto virus che s’insinua nel pc, versione contemporanea e virtuale del microrganismo sopracitato? Forse, ma – soprattutto – se le mangerà il tempo. Pubblicate sui social e inghiottite da un brevissimo flusso temporale. Conservate sui supporti informatici che ancora non ci danno rassicurazione sulla loro durata.
Scrivere di fotografia ci riporta fatalmente alla storia delle immagini e l’iconografia ci insegna che il Tempo, Kronos, è rappresentato con sembianze umane. Cannibalismo insomma.
E – a conti fatti – non so perché, o forse sì, ma voglio esser buona, a me pare che tutto torni.