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Vilma dei colletti bianchi

"Ritratto di famiglia", 1930 circa, collezione privata. particolare in cui si riconosce l'intervento di fotoritocco.
“Ritratto di famiglia”, 1930 circa, collezione privata. [Particolare in cui si riconosce l’intervento di fotoritocco].
Quella che leggerete è un’intervista a un’anziana ritoccatrice. Intervista estratta da un saggio che scrissi nel lontano 1997, intitolato Tipi fotografici e pubblicato sul numero di aprile (anno 17°) de “L’impegno – rivista di storia contemporanea” (periodico edito dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società civile nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia).
Vilma, che ormai non c’è più, non volle per pudore che scrivessi il suo nome per esteso: oggi glielo restituisco, mantenendo segreto il cognome e il paese dove lavorava, per non tradire troppo le sue volontà.
L’incontro con lei fu toccante e denso, forse anche perché avvenuto sul finire di un’epoca. Per me, resta ancora una valida lezione sulla fotografia (analogica) e sul difficile ruolo delle donne in un settore dominato dagli uomini.

Intervista a V. M., ritoccatrice

V. M. ha 72 anni e dal 1942 lavora come ritoccatrice in un vecchio negozio di foto-ottica, attivo dal 1927 in un paese del Vercellese. Risponde alle domande seduta dietro al suo vecchio tavolo di lavoro, sistemato nel retrobottega e “invaso” da fotografie, carta e scatole contenenti le 54.008 fototessere scattate fino al 1993, anno in cui fu smantellata la sala di posa. Appesi a un cordoncino, lungo le pareti, ci sono gli abiti che lei cuce, nei frequenti momenti di inattività, per sé o per le nipoti del titolare, un anziano maestro elementare succeduto nel 1946 allo zio fotografo, primo proprietario dello studio.

«Ho iniziato a lavorare qui quando c’era ancora la guerra. Io non volevo fare questo mestiere: allora i negozi di fotografia erano frequentati solo da uomini e io mi vergognavo. Poi però mi sono lasciata convincere».

Che cosa avrebbe voluto fare?
«La sarta. Prima di venire qui facevo l’apprendista da una sarta, ma dopo un po’ di tempo ho scoperto che fare la ritoccatrice mi piaceva di più e sono rimasta in negozio. Se dovessi tornare indietro, lo rifarei. Mi piace ogni aspetto del mio lavoro. Quando un lavoro riesce bene, dà soddisfazione e lo si continua a fare, anche se all’inizio non si è entusiasti».

Di cosa si è occupata in tanti anni di mestiere?
«Di sviluppo, stampa e ritocco. Sviluppavo le fotografie scattate in studio e in esterno dallo zio del maestro, poi facevo gli ingrandimenti, il ritocco e la coloritura. E “sviluppavo il dilettante”… ».

…ovvero?
«Sviluppavo i rullini dei fotoamatori».

Chi le ha insegnato?
«Lo zio dell’attuale proprietario, che morì tre anni dopo il mio arrivo, nel ’45. Come prima cosa mi fece vedere come si svolgeva il lavoro in camera oscura, poi, poco per volta, m’insegnò le tecniche del ritocco. L’apprendistato era così: si imparava un mestiere accanto a chi lo sapeva già fare.
E non si veniva pagati subito. Per il primo anno mi accontentai di una piccola mancia domenicale; dopo quel periodo, però, avevo imparato a mandare avanti uno studio fotografico».

Quindi scattava anche…
«Solo le fototessere. Dei ritratti, dei mezzi busti e delle fotografie con il fondale se ne occupava il proprietario, che era un bravo fotografo. C’erano anche i servizi esterni, ma io non li ho mai fatti, perché mi vergognavo. Non mi piaceva stare in mezzo alla gente con una macchina fotografica in mano: mi guardavano tutti, anche perché non era un mestiere da donna. Preferivo stare in negozio e, soprattutto, ritoccare».

Che tipo di fotografie erano sottoposte al ritocco e perché?
«Tutte: dalle tessere alle foto a figura intera realizzate in studio o in esterni.
Una volta ci si faceva fotografare poche volte nella vita e le fotografie dovevano essere belle, senza difetti. Oggi ognuno ha la macchina fotografica e usa rullini su rullini: ci sono tante fotografie fra cui scegliere la migliore.
Quando ho iniziato questo lavoro, invece, le persone, per avere una fotografia, dovevano recarsi in uno studio e lo facevano in media tre o quattro volte nella vita. I genitori portavano i figli in fasce per fare la prima fotografia, poi tornavano in occasione della prima comunione. Verso i diciotto anni era necessaria una fototessera; quasi tutti, inoltre, si facevano fotografare dopo il fidanzamento e nel giorno delle nozze. Erano foto importanti e il ritocco era necessario, perché i negativi e le stampe uscivano puntinati di bianco».

Come si eseguiva il ritocco?
«Per prima cosa intervenivo sul negativo, coprendo le macchie bianche con una matita che aveva una mina speciale e poi passavo al positivo, utilizzandone un’altra. Avere buone matite è fondamentale per la riuscita del ritocco: le “Hardmuth” sono sempre state le migliori. Per i negativi si sceglievano mine che andavano dalla 1 alla 4B e anche oltre, mentre per i positivi si andava dalla 0 alla 8. Le mine più dure avevano un tratto deciso ma meno persistente, quelle più morbide lasciavano un segno più duraturo. Penso che esistano ancora oggi: io, per i pochi ritocchi che faccio adesso, adopero quelle comperate vent’anni fa».

Che materiali usava, oltre alle matite?
«I raschietti e una serie di colori ad acqua numerati per colorare le stampe in bianco e nero. I raschietti sono dei piccoli coltellini, che noi abbiamo sempre confezionato artigianalmente con le lamette da barbiere e che servono per sbiancare le parti troppo grigie sulla stampa. Nel ritratto, per esempio, erano utili per rendere i denti più bianchi o i colletti più puliti».

E i colori…
«All’inizio si compravano in polvere e si dovevano mischiare con l’acqua in un piattino. Ho ancora i botticini nel cassetto…[lo apre N.d.A] eccoli qui! I primi che ho usato erano italiani: i “Carlo Piazza”; poi sono passata ai “Pelikan”. Adesso, invece, mi servo di libretti molto comodi, composti da dei cartoncini su cui hanno steso uno strato di colore. Io non devo fare altro che scegliere i colori che voglio utilizzare, inumidire il pennello, passarlo sui cartoncini, mischiare i colori in un piattino e poi passare alla coloritura della fotografia. Dopo che i colori sono asciugati bene, controllo se vi sono ancora delle macchie bianche e ritocco con la matita per positivo. Il colore va sempre usato prima della matita perché, essendo ad acqua, farebbe svanire i segni delle mine».

Sul libretto vengono anche indicate quali combinazioni di colori usare per ottenere, ad esempio un incarnato?
«Macché! Si deve andare a occhio: bisogna imparare a regolarsi con l’esperienza e un po’ di gusto».
[I colori che usa V. M. sono i “Nicholson’s Peerles Transparent Water Color”, prodotti negli Stati Uniti dal 1902. In realtà, dietro ogni cartoncino colorato, è specificato il nome del colore, l’utilizzo più appropriato e i risultati che si ottengono con altre combinazioni di colori, ma V. M., com’è intuibile, non conosce l’inglese. N.d.A]

Perché i clienti volevano le fotografie colorate?
«Perché sembravano più vive, più belle e più reali. Anch’io le preferisco e poi mi piace molto colorare, mi riesce bene».

Quali sono stati gli anni in cui ha lavorato di più?
«Si lavorava tanto negli anni cinquanta e sessanta. Prima non c’era molto da fare perché tutti erano in guerra e poi sono subentrate le pellicole a colori che hanno fatto la fortuna dei grandi laboratori di città».

Nel periodo di maggior impegno i suoi clienti erano più uomini o donne?
«Non saprei, non mi sembra che ci fosse una gran differenza. Qui venivano un po’ tutti, soprattutto per le fototessere».

Quante persone, oggi, si rivolgono ancora a lei?
«Pochi, quasi nessuno. Solo due anni fa abbiamo avuto un bel po’ di lavoro: ci siamo occupati delle riproduzioni di fotografie in bianco e nero, che sono state pubblicate su un libro dedicato alle vecchie immagini di questa cittadina e ai personaggi di un tempo. Le richieste più frequenti, comunque, riguardano sempre ristampe di qualche vecchio negativo. Noi in negozio ne abbiamo quasi centomila, su lastra o su pellicola, che riguardano la storia e gli abitanti del paese. Sono tutti numerati e riportati su un grande registro. Da noi sono passati in tanti a farsi fotografare: così, oggi, se un cliente vuole una fotografia di una persona anziana, magari morta da poco, noi consultiamo il registro e ripeschiamo il negativo del ritratto, poi io lo stampo ed eseguo il ritocco. Ma capita raramente.
Fino agli anni sessanta. inoltre, c’erano i fotoamatori che mi portavano i rullini da sviluppare. Adesso, però, pochi dilettanti usano ancora il bianco e nero: sono tutti più esigenti, mandano i negativi delle pellicole a colori ai laboratori e quando vedono le stampe non sono mai contenti. Una volta, quando il lavoro era ancora tutto artigianale, si accontentavano più facilmente e comprendevano la difficoltà del nostro lavoro: molte volte, dopo che avevano visto un restauro riuscito bene, mi facevano anche i complimenti».

Ha mai avuto contatti con l’ambiente fotografico, al di fuori del paese o del negozio?
«No. Il mio mondo era ed è il negozio. Qui ho imparato e qui sono rimasta».

Ha insegnato a qualcuno questo mestiere?
«Un po’ di anni fa vennero due ragazze per imparare, ma si stancarono subito. Anzi, rimasero deluse: volevano essere pagate subito, ma questo è un lavoro lungo da apprendere. Non le ho più riviste».

Con l’avvento delle nuove tecniche fotografiche di sviluppo e stampa che ruolo ha, oggi, una professione come la sua?
«Nessuno: oggi non serve più a nulla, non ha più senso, come quasi tutti i lavori di artigianato che richiedono una buona manualità. La tecnica ha sostituito i ritoccatori e nessuno si interessa più a questo mestiere. Se un giorno però ci fosse un’esplosione atomica che spazzasse via tutti i macchinari, nessuno sarebbe in grado di fare il ritoccatore. Così si dovrebbe ricominciare tutto da capo».

Prigioniere della propria immagine

Anonimo, "Distribuzione del latte", Trino, 1930  (Biblioteca civica di Trino)
Anonimo, “Distribuzione del latte”, Trino, 1930
(Biblioteca civica di Trino)

Per inaugurare la ripresa del blog e proseguire idealmente la discussione nata intorno alle recenti immagini pro-nataliste divulgate dal Governo Italiano, ripropongo un mio saggio giovanile, d’inaspettata attualità, pubblicato sul n.1 anno 19° de “L’impegno”, rivista di storia contemporanea edita dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Vercellese, nel Biellese e in Valsesia.

Buona lettura, per chi avrà la pazienza di arrivare fino in fondo…

Prigioniere della propria immagine
Fotografie di donne vercellesi prima della Liberazione

Nel 1997 mi vennero affidate la ricerca iconografica e la redazione dei testi per la mostra “Con coraggio e con fatica. Immagini del lavoro femminile in provincia di Vercelli”, curata da Pierangelo Cavanna e organizzata dall’Amministrazione provinciale in collaborazione con l’Istituto. Durante il lavoro di ricerca (che mi portò a consultare archivi pubblici e privati) esaminai più volte fotografie con soggetti femminili, scattate tra il 1930 e il 1943 e riconducibili a una produzione fotografica imposta e controllata dal fascismo, al fine di ottenere materiale adatto a supportare una politica femminile basata su concetti profondamente antifemministi.
La fotografia, «sia perché di più immediata e facile lettura rispetto al testo scritto, sia in virtù della carica di realismo che le è strettamente connaturata»⌈1⌉, diventa, durante la dittatura, il medium adatto a rilanciare e divulgare, anche nei più piccoli centri della provincia, l’usurata immagine di una donna indotta dal regime a ritrovare la propria “specificità femminile”; in ambito familiare come “sposa e madre esemplare”⌈2⌉, in campo professionale come infaticabile lavoratrice votata alla cura del prossimo o come massaia rurale e, in contesti pubblici, come cittadina italiana impegnata nelle opere di assistenza promosse dalla sezione femminile del Pnf. La fotografia fascista, però, con la stessa astuzia con cui ordisce la nuova iconografia femminile, dimentica quell’esigenza di emancipazione e di autodeterminazione avvertita dalle donne già in età liberale e manifestata nel corso degli anni con estenuanti lotte per il diritto al lavoro e migliori condizioni di vita. Esigenza che, in territorio vercellese, ha precedenti fotografici nelle immagini dello sciopero scattate da Andrea Tarchetti a Vercelli nel 1906 ⌈3⌉ o nell’anonima serie dedicata alla lunga agitazione indetta contro i licenziamenti alla Manifattura lane di Borgosesia del 1914 ⌈4⌉.
Questa “nuova” e “smemorata” iconografia femminile, di cui il fascismo millanta il realismo e la valenza estetica, viene promossa e diffusa capillarmente attraverso pubblicazioni come “Il Giornale della donna” (distribuito in tutte le sezioni provinciali dei fasci femminili) che, a partire dai primi anni trenta, decide di aumentare il numero di pagine fotografiche, affiancando alle immagini ufficiali d’agenzia fotografie inviate dalle stesse lettrici. «Chiediamo molte fotografie a corrispondenti, collaboratrici, abbonate – si legge su un annuncio pubblicato nel ’33 – Ce ne devono essere in tutte le pagine del nostro giornale, ma belle, interessanti, significative: fotografie anzitutto dei fasci femminili, delle famiglie numerose, di bambini e bambine, di camerate, di gruppi di lavoratrici, di mostre nelle quali realmente si affermi l’originalità della donna che vive nel clima della Rivoluzione. Ogni fotografia deve rappresentare una realtà viva e operante della vita fascista»⌈5⌉.
Alla donna in quanto soggetto fotografato e al fotografo (dilettante o professionista) in quanto operatore, il regime impone di riflettere e lavorare su una distinzione tra fotografabile e non fotografabile pensata unicamente per essere funzionale al consenso. La nuova icona femminile, costruita secondo una «precisa retorica di gesti e composizioni»⌈6⌉ e proponibile ovunque perché avulsa da ogni contesto storico-sociale locale, fa la sua comparsa nel Vercellese intorno agli anni trenta. Risalgono a quel periodo le prime fotografie di donne in posa con i figli, scattate per attestare l’attività svolta dall’Onmi: moderni monumenti alla madre feconda divulgati, dietro l’apparente scopo celebrativo, per censurare e arginare il fallimento di una politica pro-natalista che, nell’Italia settentrionale, tra il 1931 e il 1935, (periodo in cui vengono scattate queste fotografie), “frutta” al regime il più basso tasso di natalità nazionale, pari a 20,3 nati su mille abitanti⌈7⌉.

Anonimo, "Opera nazionale maternità e infanzia", Santhià, 1930
Anonimo, “Opera nazionale maternità e infanzia”, Santhià, 1930

Nello stesso periodo anche altri soggetti femminili vengono radunati davanti agli apparecchi fotografici e ripresi frontalmente, con gli sguardi che convergono verso l’obbiettivo, per trasmettere una forte coesione e una disciplinata condivisione di valori. In un’immagine scattata a Trino nel 1940 alle infermiere dell’Ospedale, ad esempio, la composizione del gruppo sorridente e stretto intorno al medico, attesta la fiera accettazione di un lavoro che permette di realizzare la femminile attitudine alla cura del prossimo e comporta una “naturale” subordinazione nei confronti della figura professionale maschile posta, ovviamente, al centro dell’immagine.

Anonimo, "Infermiere dell'ospedale", Trino, 1940 circa  (Biblioteca civica di Trino)
Anonimo, “Infermiere dell’ospedale”, Trino, 1940 circa
(Biblioteca civica di Trino)

Ugualmente rivolte alla celebrazione della donna-ancella, sono le immagini dell’interessante ma anonima serie realizzata nel 1940 e contenute in un album della Croce rossa di Vercelli, in cui le crocerossine, seppur inserite in un ordinamento militare di tipo maschile, vengono riproposte nel loro ruolo tradizionale di spontanee dispensatrici di cure ai propri figli o, come in questo caso, in tempo di guerra, ai figli della patria.

Anonimo, "Crocerossine, Vercelli", 1940  (Archivio della Croce rossa italiana, sezione di Vercelli)
Anonimo, “Crocerossine, Vercelli”, 1940
(Archivio della Croce rossa italiana, sezione di Vercelli)

Spunti per la rappresentazione dell’ideale femminile fascista provengono anche dalla scuola, dove la donna svolge diligentemente il suo ruolo di educatrice e la bambina veste la sua prima divisa, partecipa a sfilate e saggi ginnici proprio come i suoi compagni maschi, ma ripete a voce alta che “La Patria si serve anche spazzando la casa”, uno dei punti del “Decalogo della Piccola Italiana”, stilato per inchiodarla al suo futuro di madre e sposa. Scolaresche impettite, maestre fiere di contribuire alla formazione del nuovo popolo fascista ed esibizioni ginniche sono i soggetti preferiti anche dai fotografi vercellesi. Si veda, a campione, la fotografia scattata a Santhià, nel 1930, durante una Festa degli alberi, a un folto gruppo di Piccole italiane irrigidite in una posizione che sacrifica l’entusiasmo infantile all’ordine e alla disciplina e richiama la forma della vegetazione presente sullo sfondo dell’inquadratura.

Anonimo, "Scolaresche alla Festa degli alberi", Santhià, 1930
Anonimo, “Scolaresche alla Festa degli alberi”, Santhià, 1930

Accanto alla produzione di fotografie di impronta prettamente fascista vi sono anche altre immagini, legate alla tradizione fotografica ottocentesca, ugualmente funzionali, però, all’intento di imprigionare la donna nel suo ancestrale ruolo di ieratica custode del focolare. Sono, ad esempio, le fotografie delle cucitrici, che vengono riprese mentre imparano e ripetono gesti pacati e antichi quanto quelli di Penelope, sedute vicino alle loro case, accanto ai loro bambini; stucchevoli oleografie utilizzate come elementi probatori di grazia e serenità da esibire, fra l’altro, come deterrente per chi, in fabbrica o lontano da casa, svolge lavori che il regime definisce svilenti, mascolinizzanti e causa di sterilità.

Giovanni Saettone, "Cucitrici", Trino, 1932  (Biblioteca civica di Trino)
Giovanni Saettone, “Cucitrici”, Trino, 1932
(Biblioteca civica di Trino)

Non solo docili ed esemplari figure femminili popolano la provincia: nel Vercellese, il fascismo deve fare i conti con una scomoda presenza: la mondina, protagonista fino al ’32 di proteste contro riduzioni di salario e per migliori condizioni di lavoro indette sfidando le minacce dei prefetti e degli agrari, ingombrante contraddizione alla politica di sbracciantizzazione e, nello stesso tempo, indispensabile anello della nazionale catena produttiva risicola, favorita dal governo perché meno costosa dell’importazione e lavorazione del frumento. «La mondina – scrive Victoria De Grazia – costituiva un insulto ai benpensanti, resi sensibili dalla propaganda fascista alle condizioni delle madri lavoratrici. Era già abbastanza deplorevole che le ragazze lavorassero nell’acqua melmosa fino alle ginocchia, con le gonne tirate su alla cintola. Ma ancora peggiore era il fatto che le madri abbandonassero lattanti e divezzi alla lotta libera nei paesi vicini o nelle baracche intorno alle cascine. Per di più le lavoratrici del riso avevano il più alto tasso di aborti spontanei di qualsiasi altro gruppo, fatto che i medici attribuivano alla posizione ricurva nell’acqua per ore e ore» ⌈8⌉. Una figura femminile così difficile da gestire non può quindi “sperare” di essere celebrata dalla fotografia. Gli obbiettivi si accorgono della sua presenza unicamente quando è schierata davanti agli emissari di Mussolini, quando deve comparire come elemento spersonalizzato in immagini che documentano particolari fasi della lavorazione del riso o, ancora una volta, quando può essere ripresa nella veste di silente lavoratrice sottomessa alla figura maschile.

Anonimo, "Mondine al lavoro", Vercellese  (Archivio dell'Isrsc Bi-Vc)
Anonimo, “Mondine al lavoro”, Vercellese
(Archivio dell’Isrsc Bi-Vc)

All’opposto della mondina-bracciante si colloca la massaia rurale, che lavora accanto al marito e ai figli nella piccola azienda agricola di proprietà. Un modello femminile oggetto di una massiccia campagna fotografica: «Compaiono sui giornali […] le massaie che hanno ottenuto risultati straordinari nell’allevamento e nell’orticoltura, ritratte insieme ai conigli dal pelo bianco e morbido oppure a melanzane, zucche, girasoli di dimensioni gigantesche. Il cliché è sempre lo stesso: al centro la conigliera ed accanto la massaia, che la mostra timidamente sorridente; oppure è la massaia stessa ad assumere una posizione centrale, mentre tiene in braccio i suoi prodotti di dimensioni eccezionali»⌈9⌉. Un cliché adottato anche da un fotoamatore di Santhià che, nel 1943, scatta, senza fini propagandistici, una fotografia destinata all’album di famiglia, del tutto simile a quelle pubblicate dai giornali di regime.

Anonimo, "Donna con conigli", Santhià, 1943, Santhià (collezione privata)
Anonimo, “Donna con conigli”, Santhià, 1943, Santhià (collezione privata)

Il fallimento delle politiche femminili fasciste, insieme con la tenace adesione di diverse donne agli ideali della Resistenza, occasione per cercare una personale liberazione nella Liberazione, ci impongono oggi una rilettura delle immagini prodotte dalla retorica di regime, che tenga conto di quell’antico carico di frustrazioni e desideri femminili, congelati dalla dittatura ed esplosi durante la Liberazione e il dopoguerra, completamente assente da tutta la produzione fotografica del ventennio.
Nel ’45 la partigiana Soreghina scriveva: «Ora ci accorgiamo di avere un’anima complicata, inquieta, tormentata, un cuore difficile a comprendersi, che batte troppo presto e troppo presto inutilmente: abbiamo l’anima dei ventenni che si guardano attorno e hanno bisogno di qualcosa a cui attaccarsi e non sanno ancora se deve essere l’amore o la patria o un’idea, un sogno lontano»⌈10⌉.
Nonostante un indottrinamento passato attraverso cumuli di fotografie.

 

Note
1 Silvia Salvatici, Modelli femminili e immagine della donna attraverso le fotografie della stampa fascista, in “Aft. Rivista di Storia e Fotografia”, a. IX, n. 18, dicembre 1993.

2 Parte del titolo del noto saggio di Piero Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia e politica delle donne e della famiglia durante il fascismo, Firenze, Guaraldi, 1975.

3 Su Andrea Tarchetti si veda Pierangelo Cavanna – Mimmo Vetrò, Andrea Tarchetti, notaio. Fotografie 1904-1912, Vercelli, Comune, Assessorato alla Cultura, 1990.

4 Sullo sciopero alla Mlb si vedano Antonino Pirruccio, Borgosesia 1914. Sciopero alla Manifattura Lane, Borgosesia, Isr Vc, 1983.

5 “Il Giornale della donna”, 28 febbraio 1933.

6 Arturo Carlo Quintavalle, Il lavoro e la fotografia, in Aris Accornero – Lucas – Giulio Sapelli (a cura di), Storia fotografica del lavoro in Italia 1900-1980, Bari, De Donato, 1981, ora in A. C. Quintavalle, Messa a fuoco. Studi sulla fotografia, Milano, Feltrinelli, 1983.

7 Un secolo di statistiche italiane Nord e Sud, 1861-1961, a cura dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), Roma, 1961, p. 79, tav. 77.

8 Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993, p. 252.

9 S. Salvatici, art. cit., p. 56.

10 Adriana Barbaglia, Figure silenziose. Mila, in “La Stella Alpina”, 23 settembre 1945, pubblicato in Ester Barbaglia, Quand’eri Soreghina, Varallo, Zanfa, 1968, pp. 124-125, brano tratto da Ersilia Alessandrone Perona, “La penna è l’arma del pensiero”. Scritture femminili sulla Resistenza biellese e valsesiana, in “l’impegno”, a. XV, n. 1, aprile 1995, p. 27, numero monografico dedicato agli atti del convegno Le donne vercellesi, biellesi, valsesiane nell’ antifascismo, nella guerra e nella Resistenza, Santhià, 10 dicembre 1994.

Leonilda che tirava la carretta

"Leonilda legge il giornale al marito Leopoldo", sd
“Leonilda legge il giornale al marito Leopoldo”, sd

Contrariamente alle mie previsioni, d’estate mi viene ancora voglia di scrivere: non tanto per proporre riflessioni sulla fotografia, quanto per dare spazio ad alcune biografie.
Oggi tocca a Leonilda Prato, nata nel 1875 nel cuneese, a Pamparato. Posseggo un interessante volume che le è stato dedicato: Lo sguardo di Leonilda – Una fotografa ambulante di cent’anni fa, curato da Alessandra Demichelis e pubblicato nel 2003 da Più Eventi edizioni, in occasione di una mostra monografica organizzata dall’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea della provincia di Cuneo, la provincia granda, come si dice in Piemonte.
Attraente, intraprendente e libera, Leonilda si fidanzò con Leopoldo, un bel ragazzo del suo paese, che, in seguito, sposò contro il volere di genitori. Leopoldo, a causa di due incidenti, perse fin da giovane l’uso della vista, ma non smise mai di condividere con la moglie la passione per la musica, associata al desiderio di una vita nomade. Lei, la “Nilda”, suonava la chitarra, lui la fisarmonica. Partirono insieme. Ottennero in Svizzera il patentino per poter fare musique sur rue e distribuire le “pianete” della buona sorte. Una donna piacevole con un marito cieco, entrambi cantanti e suonatori: la coppia  “funzionava”.
Poi, in un Cantone del Vaud, presso un artigiano, Leonilda la curiosa conobbe la fotografia e se ne innamorò. All’attività di cantastorie abbinò quella di fotografa ambulante. Attività creativa e – con il tempo – redditizia: strumenti pesanti da trascinarsi appresso, non leggeri come una chitarra, certo, eppure strumenti che le permettevano di guardare il mondo e gli altri da una prospettiva diversa. Irresistibile.  Lei trasportava i materiali, lui aveva imparato con il tatto a smontare e rimontare gli apparecchi e ad affiancarla nello sviluppo dei negativi.
Suggestiva la descrizione della Demichelis: «Doveva essere uno spettacolo insolito, per la gente di quei luoghi, vederli arrivare carichi degli attrezzi del mestiere, lui col cappellaccio e l’aspetto da pirata, lei minuta al suo fianco, in nulla diversa nei tratti del viso e dell’abbigliamento dalle donne di montagna che incontrava, ma risoluta e capace di montare cavalletto, banco ottico e fondali e di organizzare sulla strada un vero studio fotografico, usando la fantasia laddove la mancanza di mezzi lo richiedeva».

Leonilda Prato, "Ritratto di donna", sd
Leonilda Prato, “Ritratto di donna”, sd

Il successo la portò anche a fotografare la borghesia d’Oltralpe, ma, con la nascita dei figli e il peggioramento delle condizioni di salute del marito, quell’avventuroso girovagare dovette lasciare il posto a una dimora fissa e a una bottega di merceria. La fotografia, però, continuò ad accompagnarla fino a quando, con la morte di Leopoldo e nuovi cambi di residenza, per Leonilda giunse il momento di accantonare la fotocamera e di avviare produzioni più redditizie, ovvero un allevamento di galline ovaiole e un piccolo laboratorio di maglieria. Era rimasta sola a sostenere una famiglia numerosa.
Ma la sua storia non poteva terminare così.
Trasferitasi definitivamente nel capoluogo regionale, fu durante l’occupazione tedesca che la “Nilda”, ormai settantenne, riprese in mano la macchina fotografica per aiutare i partigiani a crearsi documenti falsi e per documentare la devastazione dell’archivio del Castello di Torino provocata dal passaggio dei nazisti.
Pochi mesi prima di morire fu ritratta per l’ultima volta da un nipote, solida e serena, seduta al tavolo della sua cucina, investita dalla luce ovattata che entrava da una finestra. Non incontriamo i suoi occhi. Il suo sguardo punta lontano, oltre le pareti di casa, verso un’esistenza di emancipazione femminile, libertà e coraggio che noi – probabilmente –  non riusciamo nemmeno a immaginare.
Che vite intense nascono e sono restituite dalla fotografia! E quanto intensa è stata la tua, esile “Nilda” che, per tutti, tiravi la carretta.

"Leonilda ritratta dal nipote", sd
“Leonilda ritratta dal nipote”, sd