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L’appello

Doris Day mentre interpreta il ruolo di una maestra
Doris Day mentre interpreta il ruolo di una maestra

Ermanno Bencivenga, ne il suo Il bene e il bello. Etica dell’immagine (ed. Il Saggiatore, 2015), scrive: «Non tutte le cose ci sono presenti e non tutte le cose ci sono assenti (…) Nel mio studio mentre scrivo, non ci sono pipistrelli, non c’è una scala a pioli, non c’è un mio lontano cugino che vive a Roma, ma sarebbe irragionevole dire che queste cose, animali o persone sono assenti. (…) Analogamente, sono presenti lo schermo e la tastiera del computer, lo sgabello su cui allungo i piedi e gli appunti dai quali cerco ispirazione; non sono presenti (anche se innegabilmente ci sono) le centinaia di libri che sono alle mie spalle (se uno mi servisse diventerebbe subito presente), i quadri alle pareti (cui sono talmente abituato che ormai neppure più li vedo) e i ragnetti che, ne sono sicuro, prosperano negli angoli. Presenza e assenza, insomma, non sono condizioni spaziali, ma spirituali».
Ora, questa riflessione, intrigante oltre che interessante, ritengo meriti di essere trasposta anche sul piano squisitamente fotografico.
La fotografia, si sa, ha dei bordi e le informazioni che essa fornisce al fruitore sono tutte contenute entro i margini che la definiscono. Le porzioni di mondo escluse dall’inquadratura sono perdute per sempre e a nulla valgono gli ingenui tentativi di ricostruirle a parole. Chi guarda, legittimamente, basa le proprie impressioni e valutazioni su ciò che ha davanti agli occhi, non su ciò che avrebbe potuto o voluto vedere.
È altrettanto assodato, come ci insegnano ieri la storia e oggi i social, che molte fotografie, per motivi essenzialmente politici o religioso/moralistici, hanno subito, al loro interno, vere e proprie epurazioni o mascherature: note sono, in certe immagini di gruppo, le vicende di personaggi fatti “sparire” perché invisi ai regimi. Ormai tristemente familiari, in immagini di diversa natura, sono la copertura o la pixelatura di specifiche parti anatomiche ritenute un’offesa al comune senso del pudore. In entrambi i casi, le rimozioni che avrebbero dovuto determinare un’assenza hanno, loro malgrado, rafforzato una presenza.  Numerosi e degni di nota, a tale proposito, gli sforzi di autori che, a livello concettuale, hanno lavorato su questo aspetto, cercando, per citare Joan Fontcuberta (di cui consiglio ad hoc la visione di Sputnik), di fornire dei veri e propri “vaccini visivi” a coloro che la fotografia vogliono capirla per davvero e accoglierla anche nelle sue espressioni più contemporanee e ambigue.
Nonostante le due brevi premesse opportune, il senso di questo articolo non ruota né attorno al fuori campo (argomento assai complesso e affascinante di cui già ho scritto in passato e su cui tornerò prossimamente), né alle manipolazioni fotografiche al servizio dei poteri.
Il mio intento è differente: ricondurre il tutto alla pratica, invitando coloro che stanno per scattare una fotografia a ragionare sulle parole di Bencivenga soprariportate e a chiedersi: «cosa, di ciò che sto per inquadrare, mi è presente, ovvero mi serve, e cosa esiste, ma è talmente superfluo, rispetto alle finalità che mi sono posto, da sfuggire al mio sguardo?». Insomma e in parole povere, l’intento è quello di invitare i fotografi a riprendere la scolastica “ritualità” dell’appello.
Non solo: dal momento che un’immagine non si risolve – almeno per quanto mi riguarda – nel momento dello scatto, suggerirei loro di interpellare gli elementi inquadrati anche in un passaggio successivo, quello dell’editing, non facendosi troppi scrupoli nel sacrificare eccedenze (a meno che non si indaghi espressamente sulla nozione di horror vacui, s’intende).
Di norma, procedere per levare è sempre una buona abitudine. Ma cosa? E come? Restiamo entro i bordi e facciamo un esempio, uno solo, sennò sarebbe troppo facile: provate a levare il colore, ove non serve, il bianco e nero già di per sé sottrae una cospicua dose di informazioni.
Adesso considerate i bordi, considerateli non come un limite, ma come uno degli strumenti offerti dalla fotografia. Usateli in piena libertà. Metteteli in relazione dialogica con ciò che racchiudono. Spesso un centimetro può fare la differenza. Tagliate, ove occorre. Non mentireste più di quanto non menta, per sua natura, la fotografia.
Escludendo i lavori che nascono con la fragile pretesa di essere pura documentazione, siete sicuri di dovere alla realtà che riprendete più di quanto non dobbiate a voi stessi?
Il primo nome che deve rispondere all’appello è il vostro, è una questione di consapevolezza. E la propria consapevolezza supera, in termini di valore, il pensiero dei puristi o le mitologie legate alla fotografia. Senza di essa non si è né coerenti, né, aspetto altrettanto grave, credibili.
Centratevi sulla vostra visione e sulle componenti che le sono funzionali. Rimuovete il resto. Solo coì vi manterrete in equilibrio quando critici e spettatori vi daranno spintoni per farvi cadere.

 

Quando la linea si spezza

Osvaldo Cavandoli, "La Linea", ©CAVA/QUIPOS
Osvaldo Cavandoli, “La Linea”, © CAVA/QUIPOS

Premetto subito che questo articolo, inaspettato, scaturisce di getto da un post, estraneo alla fotografia, pubblicato recentemente su Facebook. Nondimeno, si sa, da cosa nasce cosa.
Dunque, la querelle, portata avanti sul social con molta intelligenza (vale a dire senza arroganza) riguardava il cantante, ex Cccp ed ex Csi ed ex ecc…, Lindo Ferretti, da qualche tempo palesemente distante dalla “linea” a cui aveva dichiarato fedeltà. Ora, essendo stata sempre una tiepidissima ascoltatrice di Ferretti, non mi cimenterò certo in una disanima che lascio volentieri ai suoi sostenitori o detrattori. O comunque a chi, al contrario di me, ha gli strumenti e l’interesse per poterla sostenere con competenza.
Da quella discussione, però, è nata una domanda che, in primis, pongo a me stessa e poi rivolgo a voi lettori: «quanto siamo disposti a perdonare i cambiamenti di rotta di chi amiamo e che per noi ha avuto un significato?». Ma, soprattutto, essendo questo uno spazio dedicato alla cultura fotografica: «quanto siamo disposti a perdonare le deviazioni di fotografi fortemente connotati dalle strade percorse nei loro primi anni?».
Gustave Flaubert, sosteneva che «L’artista deve trovare il modo di far credere ai posteri che non è mai esistito», affinché la sua opera, a qualsiasi forma espressiva essa appartenga, possa liberarsi dalla personalità che l’ha prodotta.
Eppure, per noi, certi autori diventano icone e feticci: abbiamo bisogno di biografie puntuali e sempre aggiornate, che arrivino persino dilatarne l’effettivo tempo vissuto sulla Terra. Tutto procede bene, fino a quando non intervengono “scoperte” in grado di scardinare il nostro rapporto adorante con il mito di turno.
Allora, per esempio, ecco nascere quesiti del tipo: «Se la morte del miliziano fosse un posato, come alcuni sostengono, Robert Capa sarebbe più o meno Robert Capa?» (a questo interrogativo, che trovo di una stupidità disarmante, vorrei rispondere: Capa resterebbe e resta sempre Capa, almeno per me).
Oppure: «Quel tale (sono tanti, non si possono far tutti i nomi) che è sempre stato fotografo militante, perché oggi espone nelle gallerie e vende all’asta? Perché non fotografa più solo per informare il popolo?».
Affrontiamo l’argomento da un’angolatura differente: anzitutto consideriamo quanti individui si dimenticano che la coscienza pulita ce l’ha solo chi non l’ha mai usata e quanti, per insano narcisismo, sbandierato snobismo e malcelata frustrazione, si votano a “sputtanare” (mi si perdoni il termine) gli altri piuttosto che a sottoporsi a una sana autocritica.
Poi chiediamo loro: «Chi si è collocato in una nicchia, ci deve stare tutta la vita per non svendersi? Sarà destinato, per non contaminarsi, a non campare mai di fotografia e a constatare che i fiori depositati dai pochi fedeli al basamento marmoreo, finiranno per essere gradualmente sostituiti dalle scritte di chi, con priorità ben differenti dal sentito omaggio, scriverà a caratteri cubitali “SAMANTHA TVTTB – IO E TE TRE METRI SOPRA IL CIELO?”».
Provo a formulare qualche risposta: sono convinta che l’arte o la fotografia (scindo i due termini che per me non andrebbero scissi unicamente per non urtare quei gran rompiscatole dei puristi) debbano essere diffuse e riconosciute, anche monetariamente, come professioni: non è riparandole dagli sguardi della massa e dai portafogli che le si protegge. Sarebbe il caso di indignarsi non per la diffusione o la retribuzione in sé, ma per l’ottusa carenza di politiche e spazi idonei all’arte e a chi la produce seriamente.
Ciò nonostante, il vero nocciolo della questione non sta lì, sta altrove.
Non è la pecunia che olet. È l’artista o il fotografo o il curatore (mi ci metto volentieri in mezzo) a puzzare quando smette di coincidere al 100% con la sua produzione. Poiché tutto si gioca sulla credibilità. Si può cambiare idea, religione, orientamento sessuale, pur continuando a riversare la piena consapevolezza di sé nella fotografia che si fa. Solo da un’evoluzione autentica non si passerà mai al furbescamente commerciale e da lì – fatalmente – al patetico.
Non stupiamoci dei mutamenti, se sono profondi e vitali, non facciamoci toccare dai giudizi che li accompagneranno: apparteniamo a quella condizione grottesca che è la vita umana e che ci rende fragili, volubili, ironici, deperibili e spesso soli.
Stupiamoci invece di esser talmente vacui da esser capaci di tradire noi stessi e talmente vanesi da pensare di darla a bere agli altri: è a quel punto che la linea si spezza.

 

Postilla
Ringrazio Francesco Faraci, bravo e credibile fotografo, per lo spunto involontariamente offerto con il suo post su Lindo Ferretti.

A corredo di questo articolo, suggerisco la visione di John Lydon’s Megabugs, diretto da Johnny Lydon Rotten nel 2014 e – sul blog di Efrem Raimondi –  la lettura di: Parametro Pupo (  http://blog.efremraimondi.it/il-parametro-pupo/ )  e Forse http://blog.efremraimondi.it/fotografia-forse/ ).