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Dalla raccolta al falò

 

Carta
Laura Manione, “Carta”, 2016

Una delle spine nel fianco di chi fa o usa la fotografia per scopi professionali e/o autoriali è l’organizzazione del materiale prodotto: archiviare le proprie immagini, per molti, equivale a mettersi le mani nei capelli.
Dare una forma organica a una raccolta non è un’operazione facile.
Intanto, allo stato attuale, abbiamo due grandi categorie di individui interessati all’argomento: gli ibridi, ovvero coloro che provengono dalla fotografia analogica e ancora la praticano, affiancandola alle nuove tecnologie e quelli che si sono formati esclusivamente in epoca digitale. I primi hanno un duplice compito da svolgere: inventariare i materiali sensibili e numerici, decidere se creare segmenti separati o se costruire un corpus unico, digitalizzando anche i fototipi analogici, siano essi le matrici – vale a dire i negativi – o le stampe. Una cosa non esclude l’altra, ovviamente, poiché i canoni di catalogazione (parola, quest’ultima, inappropriata e assai spinosa), anche qualora si decidesse per mantenere una distinzione fra i procedimenti, dovrebbero comunque coincidere.
Da dove cominciare? Pur occupandomi di un fondo fotografico da quasi vent’anni, non posso fornire una risposta soddisfacente ed esaustiva in poche righe. Posso però riportare una vicenda che mi coinvolge professionalmente, vicenda in grado, forse, di fornire qualche spunto ai chi mi legge o quantomeno di trasferire un concetto importante: un archivio è una “cosa” viva, mutevole, ha bisogno di assestamenti prima di assumere una forma da consegnare a se stessi e ai posteri.
I materiali di cui sono responsabile e che ammontano a più di 300mila unità, sono frutto dell’attività svolta dal fotocronista vercellese Luciano Giachetti e dai suoi collaboratori dal 1944  al 1993. Consegnati post mortem per volere dell’autore e della famiglia alla Città di Vercelli e all’Istituto per la storia della Resistenza (Giachetti, con nome di battaglia Lucien, fu infatti uno dei rari partigiani fotografi)  subirono, mentre il fotografo era ancora in vita, almeno due diversi stravolgimenti. Resta il dubbio su altre riorganizzazioni, dal momento che, quando un autore non esiste più, in sua vece “parla” solo ciò che fisicamente rimane, senza possibilità di replica o di eccessiva interpretazione. Anzi, toglierei pure l’aggettivo: senza possibilità di interpretazione.
Dunque, l’iniziale sua modalità archiviazione era di tipo cronologico. Per tutti gli anni quaranta, i negativi 35mm, formato prediletto in quel periodo, erano numerati progressivamente secondo la data di scatto. A supporto di questo metodo, esistono ancora – e sono oggetti straordinari per l’eterogeneità dei soggetti accostati – grandi album di provini a contatto confezionati in maniera casalinga, grazie ai quali è possibile verificare l’esatta corrispondenza temporale e quantitativa tra la matrice e il duplicato. Dalla seconda metà del secolo in poi, Giachetti cambia apparecchi e perciò formato. Le provinature si diradano, e sugli album troviamo solo un provino per serie, ancora numerato progressivamente, ma corredato di didascalia. Dal 1963 in avanti, fino alla sua morte, il fotografo smette di confezionare gli album e cambia totalmente sistema di archiviazione. Fatti salvi i materiali resistenziali, tuttora conservati integri nei contenitori originali, egli smembra tutti i negativi e li colloca in buste e in scatole sulle quali scrive indicazioni di tipo tematico, decisamente più funzionali al reperimento di immagini singole nel minor tempo possibile.
Ora, non vi è un sistema migliore di un altro, o quantomeno non sono io a dovervelo suggerire non conoscendo le vostre esigenze, certo è che, nel caso di Giachetti, questa disciplina ingenua ma efficace di denominazione, a cui si sottoponeva quotidianamente, dove pure gli errori di grammatica finiscono per raccontarci qualcosa, ha fatto sì che, in seguito alla donazione, fosse “semplice” costituire un fondo fedele al suo modus operandi.
Ciò premesso, il suggerimento che posso dare a chi mi legge è di adottare anzitutto un criterio: temporale, tematico o geografico.
Se opterete per un criterio tematico, ovvero quello normalmente più appetibile, dovrete prestare molta attenzione alle informazioni che contiene l’immagine e all’intenzione che l’ha prodotta.
Faccio un esempio: se riprendete una piazza con una fontana, qual è il vostro soggetto principale? La piazza o la fontana? Cosa indicherete su una busta o come nominerete un file o una cartella? Problemi che svaniscono se non sono le singole immagini ad avere importanza, ma una serie intera, che avrà un’identità inscindibile e sarà determinata da un unico titolo.
Il resto sono grane che tenteranno di risolvere coloro che, come me, s’interrogheranno davanti a una fotografia senza poter avere l’autore di fronte e che, per ragioni diverse, espositive o editoriali, dovranno estrapolare da una sequenza un singolo “pezzo”, adatto al contesto per il quale si esegue una ricerca iconografica.
Una volta stabilito un criterio, assumete uno strumento semplice di inventariazione: una tabella Access, per esempio, con campi contenenti informazioni di base, quali anno, argomento, formato, quantità. Insomma con nozioni che possano permettervi anche delle agili ricerche incrociate.
Oppure…oppure fregatevene perché ciò che vi interessa è scattare, fare, e non cosa succederà dopo di voi.
Alla peggio, vi accadrà ciò a cui andò incontro un altro fotografo vercellese degli anni trenta che amava fare ritratti in studio a donne seminude. Intervistando la figlia, venni a sapere che, del lavoro di una vita, furono risparmiati solo tre scatti. Il giorno dopo i suoi funerali, la moglie raggruppò in cortile pellicole, stampe e fondali e assistette goduta al falò delle vanità del marito.
O al contrario – se avrete avuto compagne o compagni disinteressati e innocui, anziché silenti mantidi religiose – succederà che chi prenderà tra le mani le vostre fotografie salve ma disorganizzate, cercherà di dar loro una struttura asettica, il più possibile rispondente agli standard catalografici.
Insomma, archiviare è una vostra scelta: scelta che certo potrebbe esservi utile in vita. Dopo non si sa. Nessuno, finora, è mai tornato indietro per dircelo.