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Prigioniere della propria immagine

Anonimo, "Distribuzione del latte", Trino, 1930  (Biblioteca civica di Trino)
Anonimo, “Distribuzione del latte”, Trino, 1930
(Biblioteca civica di Trino)

Per inaugurare la ripresa del blog e proseguire idealmente la discussione nata intorno alle recenti immagini pro-nataliste divulgate dal Governo Italiano, ripropongo un mio saggio giovanile, d’inaspettata attualità, pubblicato sul n.1 anno 19° de “L’impegno”, rivista di storia contemporanea edita dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Vercellese, nel Biellese e in Valsesia.

Buona lettura, per chi avrà la pazienza di arrivare fino in fondo…

Prigioniere della propria immagine
Fotografie di donne vercellesi prima della Liberazione

Nel 1997 mi vennero affidate la ricerca iconografica e la redazione dei testi per la mostra “Con coraggio e con fatica. Immagini del lavoro femminile in provincia di Vercelli”, curata da Pierangelo Cavanna e organizzata dall’Amministrazione provinciale in collaborazione con l’Istituto. Durante il lavoro di ricerca (che mi portò a consultare archivi pubblici e privati) esaminai più volte fotografie con soggetti femminili, scattate tra il 1930 e il 1943 e riconducibili a una produzione fotografica imposta e controllata dal fascismo, al fine di ottenere materiale adatto a supportare una politica femminile basata su concetti profondamente antifemministi.
La fotografia, «sia perché di più immediata e facile lettura rispetto al testo scritto, sia in virtù della carica di realismo che le è strettamente connaturata»⌈1⌉, diventa, durante la dittatura, il medium adatto a rilanciare e divulgare, anche nei più piccoli centri della provincia, l’usurata immagine di una donna indotta dal regime a ritrovare la propria “specificità femminile”; in ambito familiare come “sposa e madre esemplare”⌈2⌉, in campo professionale come infaticabile lavoratrice votata alla cura del prossimo o come massaia rurale e, in contesti pubblici, come cittadina italiana impegnata nelle opere di assistenza promosse dalla sezione femminile del Pnf. La fotografia fascista, però, con la stessa astuzia con cui ordisce la nuova iconografia femminile, dimentica quell’esigenza di emancipazione e di autodeterminazione avvertita dalle donne già in età liberale e manifestata nel corso degli anni con estenuanti lotte per il diritto al lavoro e migliori condizioni di vita. Esigenza che, in territorio vercellese, ha precedenti fotografici nelle immagini dello sciopero scattate da Andrea Tarchetti a Vercelli nel 1906 ⌈3⌉ o nell’anonima serie dedicata alla lunga agitazione indetta contro i licenziamenti alla Manifattura lane di Borgosesia del 1914 ⌈4⌉.
Questa “nuova” e “smemorata” iconografia femminile, di cui il fascismo millanta il realismo e la valenza estetica, viene promossa e diffusa capillarmente attraverso pubblicazioni come “Il Giornale della donna” (distribuito in tutte le sezioni provinciali dei fasci femminili) che, a partire dai primi anni trenta, decide di aumentare il numero di pagine fotografiche, affiancando alle immagini ufficiali d’agenzia fotografie inviate dalle stesse lettrici. «Chiediamo molte fotografie a corrispondenti, collaboratrici, abbonate – si legge su un annuncio pubblicato nel ’33 – Ce ne devono essere in tutte le pagine del nostro giornale, ma belle, interessanti, significative: fotografie anzitutto dei fasci femminili, delle famiglie numerose, di bambini e bambine, di camerate, di gruppi di lavoratrici, di mostre nelle quali realmente si affermi l’originalità della donna che vive nel clima della Rivoluzione. Ogni fotografia deve rappresentare una realtà viva e operante della vita fascista»⌈5⌉.
Alla donna in quanto soggetto fotografato e al fotografo (dilettante o professionista) in quanto operatore, il regime impone di riflettere e lavorare su una distinzione tra fotografabile e non fotografabile pensata unicamente per essere funzionale al consenso. La nuova icona femminile, costruita secondo una «precisa retorica di gesti e composizioni»⌈6⌉ e proponibile ovunque perché avulsa da ogni contesto storico-sociale locale, fa la sua comparsa nel Vercellese intorno agli anni trenta. Risalgono a quel periodo le prime fotografie di donne in posa con i figli, scattate per attestare l’attività svolta dall’Onmi: moderni monumenti alla madre feconda divulgati, dietro l’apparente scopo celebrativo, per censurare e arginare il fallimento di una politica pro-natalista che, nell’Italia settentrionale, tra il 1931 e il 1935, (periodo in cui vengono scattate queste fotografie), “frutta” al regime il più basso tasso di natalità nazionale, pari a 20,3 nati su mille abitanti⌈7⌉.

Anonimo, "Opera nazionale maternità e infanzia", Santhià, 1930
Anonimo, “Opera nazionale maternità e infanzia”, Santhià, 1930

Nello stesso periodo anche altri soggetti femminili vengono radunati davanti agli apparecchi fotografici e ripresi frontalmente, con gli sguardi che convergono verso l’obbiettivo, per trasmettere una forte coesione e una disciplinata condivisione di valori. In un’immagine scattata a Trino nel 1940 alle infermiere dell’Ospedale, ad esempio, la composizione del gruppo sorridente e stretto intorno al medico, attesta la fiera accettazione di un lavoro che permette di realizzare la femminile attitudine alla cura del prossimo e comporta una “naturale” subordinazione nei confronti della figura professionale maschile posta, ovviamente, al centro dell’immagine.

Anonimo, "Infermiere dell'ospedale", Trino, 1940 circa  (Biblioteca civica di Trino)
Anonimo, “Infermiere dell’ospedale”, Trino, 1940 circa
(Biblioteca civica di Trino)

Ugualmente rivolte alla celebrazione della donna-ancella, sono le immagini dell’interessante ma anonima serie realizzata nel 1940 e contenute in un album della Croce rossa di Vercelli, in cui le crocerossine, seppur inserite in un ordinamento militare di tipo maschile, vengono riproposte nel loro ruolo tradizionale di spontanee dispensatrici di cure ai propri figli o, come in questo caso, in tempo di guerra, ai figli della patria.

Anonimo, "Crocerossine, Vercelli", 1940  (Archivio della Croce rossa italiana, sezione di Vercelli)
Anonimo, “Crocerossine, Vercelli”, 1940
(Archivio della Croce rossa italiana, sezione di Vercelli)

Spunti per la rappresentazione dell’ideale femminile fascista provengono anche dalla scuola, dove la donna svolge diligentemente il suo ruolo di educatrice e la bambina veste la sua prima divisa, partecipa a sfilate e saggi ginnici proprio come i suoi compagni maschi, ma ripete a voce alta che “La Patria si serve anche spazzando la casa”, uno dei punti del “Decalogo della Piccola Italiana”, stilato per inchiodarla al suo futuro di madre e sposa. Scolaresche impettite, maestre fiere di contribuire alla formazione del nuovo popolo fascista ed esibizioni ginniche sono i soggetti preferiti anche dai fotografi vercellesi. Si veda, a campione, la fotografia scattata a Santhià, nel 1930, durante una Festa degli alberi, a un folto gruppo di Piccole italiane irrigidite in una posizione che sacrifica l’entusiasmo infantile all’ordine e alla disciplina e richiama la forma della vegetazione presente sullo sfondo dell’inquadratura.

Anonimo, "Scolaresche alla Festa degli alberi", Santhià, 1930
Anonimo, “Scolaresche alla Festa degli alberi”, Santhià, 1930

Accanto alla produzione di fotografie di impronta prettamente fascista vi sono anche altre immagini, legate alla tradizione fotografica ottocentesca, ugualmente funzionali, però, all’intento di imprigionare la donna nel suo ancestrale ruolo di ieratica custode del focolare. Sono, ad esempio, le fotografie delle cucitrici, che vengono riprese mentre imparano e ripetono gesti pacati e antichi quanto quelli di Penelope, sedute vicino alle loro case, accanto ai loro bambini; stucchevoli oleografie utilizzate come elementi probatori di grazia e serenità da esibire, fra l’altro, come deterrente per chi, in fabbrica o lontano da casa, svolge lavori che il regime definisce svilenti, mascolinizzanti e causa di sterilità.

Giovanni Saettone, "Cucitrici", Trino, 1932  (Biblioteca civica di Trino)
Giovanni Saettone, “Cucitrici”, Trino, 1932
(Biblioteca civica di Trino)

Non solo docili ed esemplari figure femminili popolano la provincia: nel Vercellese, il fascismo deve fare i conti con una scomoda presenza: la mondina, protagonista fino al ’32 di proteste contro riduzioni di salario e per migliori condizioni di lavoro indette sfidando le minacce dei prefetti e degli agrari, ingombrante contraddizione alla politica di sbracciantizzazione e, nello stesso tempo, indispensabile anello della nazionale catena produttiva risicola, favorita dal governo perché meno costosa dell’importazione e lavorazione del frumento. «La mondina – scrive Victoria De Grazia – costituiva un insulto ai benpensanti, resi sensibili dalla propaganda fascista alle condizioni delle madri lavoratrici. Era già abbastanza deplorevole che le ragazze lavorassero nell’acqua melmosa fino alle ginocchia, con le gonne tirate su alla cintola. Ma ancora peggiore era il fatto che le madri abbandonassero lattanti e divezzi alla lotta libera nei paesi vicini o nelle baracche intorno alle cascine. Per di più le lavoratrici del riso avevano il più alto tasso di aborti spontanei di qualsiasi altro gruppo, fatto che i medici attribuivano alla posizione ricurva nell’acqua per ore e ore» ⌈8⌉. Una figura femminile così difficile da gestire non può quindi “sperare” di essere celebrata dalla fotografia. Gli obbiettivi si accorgono della sua presenza unicamente quando è schierata davanti agli emissari di Mussolini, quando deve comparire come elemento spersonalizzato in immagini che documentano particolari fasi della lavorazione del riso o, ancora una volta, quando può essere ripresa nella veste di silente lavoratrice sottomessa alla figura maschile.

Anonimo, "Mondine al lavoro", Vercellese  (Archivio dell'Isrsc Bi-Vc)
Anonimo, “Mondine al lavoro”, Vercellese
(Archivio dell’Isrsc Bi-Vc)

All’opposto della mondina-bracciante si colloca la massaia rurale, che lavora accanto al marito e ai figli nella piccola azienda agricola di proprietà. Un modello femminile oggetto di una massiccia campagna fotografica: «Compaiono sui giornali […] le massaie che hanno ottenuto risultati straordinari nell’allevamento e nell’orticoltura, ritratte insieme ai conigli dal pelo bianco e morbido oppure a melanzane, zucche, girasoli di dimensioni gigantesche. Il cliché è sempre lo stesso: al centro la conigliera ed accanto la massaia, che la mostra timidamente sorridente; oppure è la massaia stessa ad assumere una posizione centrale, mentre tiene in braccio i suoi prodotti di dimensioni eccezionali»⌈9⌉. Un cliché adottato anche da un fotoamatore di Santhià che, nel 1943, scatta, senza fini propagandistici, una fotografia destinata all’album di famiglia, del tutto simile a quelle pubblicate dai giornali di regime.

Anonimo, "Donna con conigli", Santhià, 1943, Santhià (collezione privata)
Anonimo, “Donna con conigli”, Santhià, 1943, Santhià (collezione privata)

Il fallimento delle politiche femminili fasciste, insieme con la tenace adesione di diverse donne agli ideali della Resistenza, occasione per cercare una personale liberazione nella Liberazione, ci impongono oggi una rilettura delle immagini prodotte dalla retorica di regime, che tenga conto di quell’antico carico di frustrazioni e desideri femminili, congelati dalla dittatura ed esplosi durante la Liberazione e il dopoguerra, completamente assente da tutta la produzione fotografica del ventennio.
Nel ’45 la partigiana Soreghina scriveva: «Ora ci accorgiamo di avere un’anima complicata, inquieta, tormentata, un cuore difficile a comprendersi, che batte troppo presto e troppo presto inutilmente: abbiamo l’anima dei ventenni che si guardano attorno e hanno bisogno di qualcosa a cui attaccarsi e non sanno ancora se deve essere l’amore o la patria o un’idea, un sogno lontano»⌈10⌉.
Nonostante un indottrinamento passato attraverso cumuli di fotografie.

 

Note
1 Silvia Salvatici, Modelli femminili e immagine della donna attraverso le fotografie della stampa fascista, in “Aft. Rivista di Storia e Fotografia”, a. IX, n. 18, dicembre 1993.

2 Parte del titolo del noto saggio di Piero Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia e politica delle donne e della famiglia durante il fascismo, Firenze, Guaraldi, 1975.

3 Su Andrea Tarchetti si veda Pierangelo Cavanna – Mimmo Vetrò, Andrea Tarchetti, notaio. Fotografie 1904-1912, Vercelli, Comune, Assessorato alla Cultura, 1990.

4 Sullo sciopero alla Mlb si vedano Antonino Pirruccio, Borgosesia 1914. Sciopero alla Manifattura Lane, Borgosesia, Isr Vc, 1983.

5 “Il Giornale della donna”, 28 febbraio 1933.

6 Arturo Carlo Quintavalle, Il lavoro e la fotografia, in Aris Accornero – Lucas – Giulio Sapelli (a cura di), Storia fotografica del lavoro in Italia 1900-1980, Bari, De Donato, 1981, ora in A. C. Quintavalle, Messa a fuoco. Studi sulla fotografia, Milano, Feltrinelli, 1983.

7 Un secolo di statistiche italiane Nord e Sud, 1861-1961, a cura dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), Roma, 1961, p. 79, tav. 77.

8 Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993, p. 252.

9 S. Salvatici, art. cit., p. 56.

10 Adriana Barbaglia, Figure silenziose. Mila, in “La Stella Alpina”, 23 settembre 1945, pubblicato in Ester Barbaglia, Quand’eri Soreghina, Varallo, Zanfa, 1968, pp. 124-125, brano tratto da Ersilia Alessandrone Perona, “La penna è l’arma del pensiero”. Scritture femminili sulla Resistenza biellese e valsesiana, in “l’impegno”, a. XV, n. 1, aprile 1995, p. 27, numero monografico dedicato agli atti del convegno Le donne vercellesi, biellesi, valsesiane nell’ antifascismo, nella guerra e nella Resistenza, Santhià, 10 dicembre 1994.

Leonilda che tirava la carretta

"Leonilda legge il giornale al marito Leopoldo", sd
“Leonilda legge il giornale al marito Leopoldo”, sd

Contrariamente alle mie previsioni, d’estate mi viene ancora voglia di scrivere: non tanto per proporre riflessioni sulla fotografia, quanto per dare spazio ad alcune biografie.
Oggi tocca a Leonilda Prato, nata nel 1875 nel cuneese, a Pamparato. Posseggo un interessante volume che le è stato dedicato: Lo sguardo di Leonilda – Una fotografa ambulante di cent’anni fa, curato da Alessandra Demichelis e pubblicato nel 2003 da Più Eventi edizioni, in occasione di una mostra monografica organizzata dall’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea della provincia di Cuneo, la provincia granda, come si dice in Piemonte.
Attraente, intraprendente e libera, Leonilda si fidanzò con Leopoldo, un bel ragazzo del suo paese, che, in seguito, sposò contro il volere di genitori. Leopoldo, a causa di due incidenti, perse fin da giovane l’uso della vista, ma non smise mai di condividere con la moglie la passione per la musica, associata al desiderio di una vita nomade. Lei, la “Nilda”, suonava la chitarra, lui la fisarmonica. Partirono insieme. Ottennero in Svizzera il patentino per poter fare musique sur rue e distribuire le “pianete” della buona sorte. Una donna piacevole con un marito cieco, entrambi cantanti e suonatori: la coppia  “funzionava”.
Poi, in un Cantone del Vaud, presso un artigiano, Leonilda la curiosa conobbe la fotografia e se ne innamorò. All’attività di cantastorie abbinò quella di fotografa ambulante. Attività creativa e – con il tempo – redditizia: strumenti pesanti da trascinarsi appresso, non leggeri come una chitarra, certo, eppure strumenti che le permettevano di guardare il mondo e gli altri da una prospettiva diversa. Irresistibile.  Lei trasportava i materiali, lui aveva imparato con il tatto a smontare e rimontare gli apparecchi e ad affiancarla nello sviluppo dei negativi.
Suggestiva la descrizione della Demichelis: «Doveva essere uno spettacolo insolito, per la gente di quei luoghi, vederli arrivare carichi degli attrezzi del mestiere, lui col cappellaccio e l’aspetto da pirata, lei minuta al suo fianco, in nulla diversa nei tratti del viso e dell’abbigliamento dalle donne di montagna che incontrava, ma risoluta e capace di montare cavalletto, banco ottico e fondali e di organizzare sulla strada un vero studio fotografico, usando la fantasia laddove la mancanza di mezzi lo richiedeva».

Leonilda Prato, "Ritratto di donna", sd
Leonilda Prato, “Ritratto di donna”, sd

Il successo la portò anche a fotografare la borghesia d’Oltralpe, ma, con la nascita dei figli e il peggioramento delle condizioni di salute del marito, quell’avventuroso girovagare dovette lasciare il posto a una dimora fissa e a una bottega di merceria. La fotografia, però, continuò ad accompagnarla fino a quando, con la morte di Leopoldo e nuovi cambi di residenza, per Leonilda giunse il momento di accantonare la fotocamera e di avviare produzioni più redditizie, ovvero un allevamento di galline ovaiole e un piccolo laboratorio di maglieria. Era rimasta sola a sostenere una famiglia numerosa.
Ma la sua storia non poteva terminare così.
Trasferitasi definitivamente nel capoluogo regionale, fu durante l’occupazione tedesca che la “Nilda”, ormai settantenne, riprese in mano la macchina fotografica per aiutare i partigiani a crearsi documenti falsi e per documentare la devastazione dell’archivio del Castello di Torino provocata dal passaggio dei nazisti.
Pochi mesi prima di morire fu ritratta per l’ultima volta da un nipote, solida e serena, seduta al tavolo della sua cucina, investita dalla luce ovattata che entrava da una finestra. Non incontriamo i suoi occhi. Il suo sguardo punta lontano, oltre le pareti di casa, verso un’esistenza di emancipazione femminile, libertà e coraggio che noi – probabilmente –  non riusciamo nemmeno a immaginare.
Che vite intense nascono e sono restituite dalla fotografia! E quanto intensa è stata la tua, esile “Nilda” che, per tutti, tiravi la carretta.

"Leonilda ritratta dal nipote", sd
“Leonilda ritratta dal nipote”, sd

Il gessificatore

Charles Aubry, "Composizione con foglie di tabacco ed erba", 1864
Charles Aubry, “Composizione con foglie di tabacco ed erba”, 1864

Vi sono figure di fotografi, all’interno della Storia della Fotografia, che passano quasi inosservate, malgrado la loro straordinarietà. Uomini capaci di grandi fallimenti individuali, che, inconsapevolmente, consegnano materiali di notevole interesse a chi verrà dopo di loro.
Il francese Charles Hippolyte Aubry (1811-1877) è uno di questi e ha tutta la mia simpatia. Un individuo in ritardo sul tempo, innamorato della fotografia senza saperla abbracciare nella maniera giusta, destinato a perdere, a fare sempre la mossa sbagliata.
Aubry era un disegnatore tessile, abile, con un’attività ben avviata: a 53 anni, nel 1864, decise di chiudere l’azienda per costituire, a Parigi, una società di calchi e fotografie di piante e fiori in gesso.
A stregare Charles, come il canto delle sirene, fu indubbiamente l’eco del successo di Adolphe Braun, che un decennio prima, nel 1853, realizzò con fortuna 300 immagini di fiori a servizio dei produttori di stoffe d’arredamento. Braun fu decisamente più oculato del suo esuberante collega nell’uso della fotografia e nella scelta degli amici, spaziando dal paesaggio, alla documentazione, fino al ritratto di corte. Egli fu insomma celebrato quanto una  “star”,  invitato con le sue nature morte all’Exposition Universelle del 1855, accreditato come primo fotografo ufficiale del Louvre, per citare solo due tra i vari traguardi che ne accrebbero la fama.
Charles no. Charles non era un compiacente. A lui non interessavano vedute, opere d’arte e d’ingegno, personaggi illustri. Il suo era un mondo fatto di tappezzerie, poltrone, tende e divani. Così escogitò l’idea di fotografare campioni floreali e piante irrigidite dalla polvere di gesso. Preparò un elegante album per il Principe Imperiale accompagnato da queste brevi righe, non risparmiando neppure una sottile denuncia sulla scarsa sovvenzione degli istituti d’arte: «Principe, per facilitare lo studio della natura, l’ho colta sul fatto in modo da fornire alle maestranze quei modelli che devono far progredire l’arte industriale messa un po’ a repentaglio dalle esigue finanze delle scuole di disegno».
A che serviva, dieci anni dopo i trionfi dell’introdotto Braun, smerciare quel tipo di lavoro come una novità? A che serviva, inoltre, adottare una tecnica tanto complessa, ovvero la gessificazione, per cogliere sul fatto la natura e congelarne le forme? Bastava la fotografia, come avrebbe ribadito Karl Blossfeldt intorno al 1930. Nessun fiore appassisce tra i bordi di un’immagine.
Non ci arrivò il povero Aubry, rapito dalla sua stessa intemperanza, il quale, l’anno seguente, avendo realizzato 200 stampe senza ottenere una sola commissione, fu costretto a serrar bottega dichiarando fallimento.
Le sue opere, oggi, sono conservate nei musei, ma di lui si parla a margine, poche righe sulle prestigiose storie della Fotografia.
Eppure l’affascinante epopea ottocentesca della fotografia, accanto ai voli in mongolfiera di Nadar l’eclettico e alle immersioni di Loius Boutan il palombaro, passa anche attraverso ingenui sognatori destinati all’insuccesso. Si sviluppa come un romanzo di Jules Verne, come un’avventura fantastica, fatta di eroici comprimari e intrepide ma struggenti comparse, come Aubry, senza i quali la trama perderebbe ritmo, emozione e completezza.

Immagini per un blog

La partenza intelligente

© Simone Barbagallo, dalla serie "Tangenziali", 2015
© Simone Barbagallo, dalla serie “Tangenziali”, 2015

Per onestà intellettuale anticipo subito che questo articolo nasce dopo aver ascoltato la lectio magistralis tenuta da Efrem Raimondi, a Busto Arsizio, giovedì 16 giugno scorso.
Traduco “in soldoni”, se l’ho intesa correttamente, una delle sue frasi di chiusura, che condivido in toto: «Se non hai un’idea non vai da nessuna parte e la tua fotografia non esiste».
La ripropongo volentieri, poiché, su tale principio, è incentrata anche la didattica adottata da me e Stefano Ghesini, nei laboratori individuali o in quelli che conduciamo insieme. C’è una ragione, infatti, se insistiamo sulla parola concettuale, perché l’idea viene prima di tutto. Non solo è il punto di partenza, ma è l’unica partenza auspicabile e intelligente.
Concentriamoci sull’importanza di sapere cos’è per un fotografo fare fotografia e non fare fotografie.
E cominciamo con il distinguere l’idea dalle motivazioni, che spesso sono passeggere. Ce lo ha insegnato Pierre Bourdieu in La fotografia. Usi e funzioni di un’arte media, pubblicato nel lontano 1965, ma ancora considerato un’acuta e valida analisi sociologica: si fotografa per solitudine, per dire «io c’ero», giusto il tempo necessario per trovare una fidanzata, per avere un ruolo familiare, per sentirsi parte di un microcosmo qual è un circolo di amatori, e via dicendo. Il libro va letto, impossibile condensarlo in poche righe, anzi, per l’accenno frettoloso, mi perdonino i lettori e l’autore, purtroppo scomparso nel 2002.
L’idea dunque, per funzionare, non deve esser effimera, ma inossidabile e connaturata all’autore, deve agire come uno specchio capace di restituirne un’immagine coerente, al di là dei generi e dei mezzi tecnologici che spesso finiscono per trasformarsi in ulteriori gabbie, ove rinchiudersi e proteggersi quando non si hanno gli strumenti sufficienti per poter introiettare ed elaborare liberamente la/le realtà che viviamo e osserviamo.
L’idea, inoltre, continuando a fare le opportune differenziazioni, viene assai prima del progetto. Quest’ultimo, nonostante sia l’architettura di un lavoro, non può sostenerlo senza avere alla base fondamenta solide, rafforzabili nel corso di una vita, ma non intercambiabili, pena l’insanabile crollo di ciò che è stato costruito.
“Progetto” deriva dal latino pro jacere [gettare avanti], espressione che rimanda etimologicamente al vocabolo “proiettile”: è qualcosa che si può lanciare per centrare un bersaglio, ma che non farebbe nemmeno un metro se non ci fosse un essere umano in grado di manovrare un congegno, vantare una buona mira e avere la consapevolezza di cosa colpire.
Quindi non fatevi sconti, fatevene piuttosto una ragione. Se avete bisogno di fotografie, come ne abbiamo bisogno tutti, fatele, ogni motivazione è giustificabile e benvenuta. Prendetele però per ciò che sono e non sentitevi frustrati, ci saranno sempre amici, contatti social e parenti disposti a goderne.
Ma se avete bisogno di fotografia, continuate a sperimentare e farvi guidare dalla vostra idea, abbiatene cura, nutritela. Perché non solo vi appartiene, ma coincide con voi stessi. Amatevi o detestatevi, non importa, ma, dentro a una foto, metteteci ciò che siete. Metteteci il vostro pensiero. Create le vostre visioni. E già che ci siamo, non ritraetevi sdegnosamente se qualcuno vi chiama artisti. La fotografia ha da anni un suo ruolo nel contesto artistico contemporaneo, non nascondiamoci dietro a un dito, lo sancisce perfino la lacunosa – ahinoi! – normativa in fatto di copyright.
Chiamate le cose con il loro nome, con serenità, senza vergogne o spocchie. E – con un gesto di responsabile paternità – alle immagini che scattate, se sono figlie di un’idea autentica, aggiungeteci con orgoglio pure il vostro cognome

Il guanto bianco

© Sergio Giannotta, Senza Titolo, dalla sere "L'Aleph", 2016
© Sergio Giannotta, Senza titolo, dalla serie “L’Aleph”, 2016

Fotografi e curatori, spesso reciprocamente critici, sono accomunati da un oggetto apparentemente innocente: il guanto bianco.
Ricordo con lucidità il giorno in cui, appena laureata e felice di svolgere il mio primo incarico di catalogazione, entrati in merceria per acquistarne un paio che sanciva il mio ingresso in un ambiente professionale che ancora oggi mi appassiona. Confesso di custodirli ancora, quei guanti ormai sgualciti e inutilizzabili, per mere ragioni affettive, quasi fossero le  scarpe con cui imparai a camminare.
Il guanto bianco è da qualche secolo un oggetto/feticcio. Senza andare troppo in là con gli anni e fermandoci a fine Ottocento, giusto per restare coevi alla fotografia, feticcio lo era, nel 1887, quando il pittore Fernand Khnopff eseguiva l’inquietante ritratto della sorella/musa Marguerite o quando Max Klinger, nel 1881, realizzava la splendida e perturbante serie di incisioni intitolata Ein Handshuh “[Un guanto”, guarda un po’, bianco]. E che dire della foto senza titolo, ripresa da Man Ray nel 1930, dove le mani femminili dipinte in bianco e in nero, scatenano un groviglio ottico di reazioni inconsce sulla loro duplicità erotico-seduttiva?

© Man Ray, Senza titolo, 1930
© Man Ray, Senza titolo, 1930

Una sorta di feticcio, il guanto bianco, lo è pure nel momento in cui è adoperato per trattare le fotografie ed esprime al contempo i concetti opposti di rispetto e di sfida. “Trattare con i guanti” è una locuzione che implica amore e protezione, “Lanciare il guanto di sfida”, al contrario, significa dar origine a un duello, in cui l’immagine diviene simbolo dell’onore da difendere.
D’abitudine, chiedo a chi è in procinto di mostrarmi un lavoro se, per visionare il suo portfolio, io debba indossare i guanti che tengo sempre vicino a me. Con l’esperienza ho capito che nelle risposte «Sì, per favore» o «No, tocca pure», si annidano atteggiamenti che la dicono lunga sul rapporto che i fotografi hanno nei confronti di ciò che producono e nei confronti del lettore. Quindi, a meno che non si tratti di stampe particolarmente delicate, per cui non occorre neppure porre la fatidica domanda, raramente infilo i candidi accessori in anticipo, ma li sfioro facendo un cenno all’autore, nella speranza di sentir pronunciare due parole che, alle mie orecchie, suonano come una melodia distensiva: «Non servono».
Il guanto è una barriera protettiva, ma comunque una barriera, una maniera per evitare contaminazioni tra l’essere umano e l’immagine. È qualcosa che ammanta di sacralità la fotografia, strappandola al contesto “impuro” in cui è stata concepita, magari fra la polvere, il sudore o il fango. Mi trovo spesso a riflettere su questo aspetto mentre sono in archivio e con i guanti tratto materiali realizzati durante la Resistenza, nei boschi, in clandestinità, tra corpi che raramente conoscevano il piacere di un bagno. Ogni fotogramma reca tracce fisiche della fatica e della precarietà con cui fu scattato, tracce che ai miei occhi fungono da valore aggiunto. Ovviamente seguo le regole e assicuro che nessuno troverà mai le mie impronte sui fototipi che esamino, ma, mi perdonino i puristi, penso che la cura per una foto passi attraverso altre “cose”.
“Cose” più epidermiche, viscerali, sensoriali. Sarò sovversiva o forse romantica, i due aggettivi non mi sembrano oggi così distanti, ma sono convinta che un’immagine, una volta stampata e diffusa, appartenga allo sguardo e alla pelle di tutti e che la stessa immagine diventi preziosa quando smette di restare immacolata per iniziare invece a passare di mano in mano e di memoria in memoria, accogliendo su di sé sedimenti e nuove “cicatrici”.
Lo sanno bene i guanti bianchi, che, nonostante i ripetuti lavaggi, proprio bianchi non tornano più: trattengono la patina indelebile delle stampe maneggiate per ricordarci, forse, che la purezza in fotografia è un valore destinato a penetrare l’inespressiva superficie di un supporto, depositandosi su livelli di profondità decisamente maggiori.

 

Dove sei?

© Ottavia Castellina, dalla serie, "Here I am again", 2008
© Ottavia Castellina, dalla serie, “Here I am again”, 2008

Giovanni Morelli, altresì conosciuto con lo pseudonimo di Ivan Lermolieff, fu uno storico dell’Arte che visse tra il 1816 e i 1891, studiò in Germania e – soprattutto – mise a punto un sistema comparativo per verificare l’autenticità delle opere e la loro corretta attribuzione. Secondo il “metodo morelliano”, ogni artista trasmetterebbe la propria identità, qualcuno scriverebbe la propria cifra stilistica, a una serie di particolari trascurabili eseguiti meccanicamente. Particolari come unghie, panneggi, lobi delle orecchie e via dicendo.
Va da sé che pittura e fotografia sono pratiche differenti, ma, se ci pensiamo bene, l’eclettico Morelli ci fornisce un orientamento anche per approcciare le immagini realizzate con una fotocamera.
Esistono dettagli che rendano riconoscibile un fotografo? E se esistono, dove si rintanano?
C’è insomma qualcosa che si deposita su ogni fotografia, sfuggendo alla regia attenta di chi preme l’otturatore? Io penso di sì ed è specificamente quello che vado cercando mentre esamino un lavoro. Un po’ come se “grattassi” un’immagine con lo sguardo, andando a frugare nei suoi angoli più dimessi e sperando di trattenere tra le ciglia una traccia “genetica” e non riproducibile di chi l’ha scattata.
Mi affido a una speranza, poiché, purtroppo, non sempre questa ricerca va a buon fine. E se un autore perde o non possiede l’automatismo, ovviamente inconscio, che gli permetta di trasferire la sua intemperanza caratteriale all’interno di un’inquadratura, allora resta solo la maniera. Nemmeno il mestiere, vocabolo a cui poter dare, nella sua attinenza con l’artigianalità, una qualche valenza positiva o creativa. No: rimane unicamente la maniera, vuota, inutile e spesso eseguita male, rimane quel guardare ai “grandi” con l’ottusa presunzione del dilettante della domenica, convinto di essersi portato a casa l’esperienza di Van Gogh solo per esser stato ore sotto la canicola a spremere tubetti di giallo per dipingere un campo di grano (per mera notorietà ho pescato un esempio dalla pittura estendibile a ogni pratica, ça va sans dire).
Ciò non significa che le “citazioni” non siano ben ammesse, al contrario: forme, contenuti o rimandi agli autori che ci hanno preceduto e ci hanno segnato, di norma, arricchiscono culturalmente un lavoro, un testo o una ricerca, ma debbono essere elaborati, non semplicemente copiati. Non basta neppure un’idea originale se declinata secondo schemi ricalcati con passività: qui siamo nell’ambito visuale, ancor prima che concettuale.
La maniera è una scorciatoia. È facile, stagnante, non porta a nulla. Invece fotografare è un continuo e faticoso movimento tra se stessi e il mondo. Un movimento che appartiene all’individualità dello sguardo, alla soggettività, all’irripetibilità di un individuo. Un movimento che, se è sincero, lascia trapelare almeno un indizio riconducibile all’autore, a lui solo.
Snidare un indizio non è semplice, ma l’intuito e un po’ di conoscenza spesso vengono in soccorso. Per scovarlo, chi osserva, come me, interrogherà l’immagine chiedendole: «dov’è?», mentre chi scatta, forse senza mai trovare risposta, interrogherà se stesso chiedendosi: «qual è?».
Domande complesse, imprescindibili e perfino irriverenti, da porsi con la stessa urgenza avvertita da André Breton, quando,  nel 1938, scriveva: «…a quali leggi irrazionali obbediamo, quali segni soggettivi ci permettono di volta in volta di trovare la direzione giusta, quali miti e quali simboli esistono in potenza in un certo amalgama di oggetti, in una certa trama di avvenimenti, quale significato attribuire a quel meccanismo dell’occhio che permette di passare dal potere visivo al potere visionario?».

Del vento e della pioggia

 

© Stefano Di Marco, "Normandia", 2004
© Stefano Di Marco, “Normandia”, 2004

In un’intervista rilasciata nel 2007, Roni Horn, artista che apprezzo molto, dichiarava: «Il tempo è una parte importante della nostra vita. È costante nella sua indifferenza nei nostri confronti e comunque imprevedibile, fa sì che tutte le circostanze siano complesse e che in definitiva sfuggano al nostro controllo. A me pare sia essenziale avere qualcosa che ci dice chi siamo, e il clima ha un suo modo per fare proprio questo. Ho sempre preso il tempo meteorologico in modo molto personale. Freud dice che “parlare del tempo è parlare di se stessi”. E io sono attratta dal tempo tanto per quello che è in sé, quanto per ciò che la gente ha da dire a suo riguardo. La bellezza del tempo è che tutti lo condividiamo equamente, e in questo momento nella nostra storia potrebbe trattarsi dell’unica cosa che abbiamo in comune».
Per ciò che mi riguarda, la citazione lucida ed esauriente della Horn, con cui sono in pieno accordo, sarebbe sufficiente a chiudere questo articolo, ma voglio concedermi lo spazio per un’ulteriore digressione foto-meteorologica.
Al di là dei lavori di autori molto conosciuti, che già fornirebbero esempi soddisfacenti, chiunque pratichi i social e osservi il flusso di immagini che li invade, sa che esiste una sorta di stagionalità fotografica a cui pochi sfuggono. Le prime nebbie e la prima neve sono declinate in ogni maniera, così come l’auspicato apparire del sole primaverile, seguito dalle piogge insistenti che sembrano invece tardare l’arrivo dell’estate, dall’immobile canicola di luglio, dai temporali ferragostani e via dicendo, con circolarità.
Il tempo ci spinge a scattare immagini e, di conseguenza, se ben approcciato, potrebbe essere il grimaldello per aprire stanze più intime di noi stessi, abitate da umori, storie e desideri.
Tornando ai nomi noti, sussistono campioni di raro incanto legati alle condizioni meteorologiche, basti pensare, fra tutti, a The Magic Garden during a Summer Shower[Acquazzone d’estate nel giardino incantato] di Joseph Sudek, che confesso essere tra le mie fotografie preferite in assoluto.

© Joseph Sudek, The Magic Garden during a Summer Shower, 1954-1959
© Joseph Sudek, “The Magic Garden during a Summer Shower”, 1954-1959

Ciò che però mi pare più significativo, in un’ottica squisitamente fotografica, è che esista una sostanziale differenza tra il modo di percepire il tempo tra Occidente e Oriente, differenza che ha indubbie ricadute sulla produzione delle immagini.
Ho avuto modo di approfondire l’argomento durante la preparazione del mio laboratorio “Fotografie in forma di haiku”, tenuto lo scorso anno, ma siccome ogni laboratorio è un working progress, ora mi sento di aggiungere una postilla che mi auguro possa essere di qualche interesse.
I giapponesi hanno stilato, nei secoli, un rigoroso lemmario con vocaboli pescati dal serbatoio naturalistico-meteorologico, la cui presenza all’interno di uno haiku, denominata kigo o piccolo kigo, svolge la funzione prestabilita di fornire al lettore un rimando a una delle quattro stagioni. Alla primavera appartengono lo sciogliersi della neve, lo zefiro, la pioggerellina; all’estate il sole di mezzogiorno, la foglia bruciata dal sole, la calura; all’autunno il vento, la nebbia; all’inverno la neve o la tormenta.
Ora, vi sono fotografi occidentali che espressamente si sono ispirati a quei “lievi coaguli di versi”, come li definiva Andrea Zanzotto, per realizzare le loro immagini: da Stieglitz a Weston, da Minor White a Vimercati, per citarne alcuni, ma restano comunque casi isolati, mentre per gli autori nipponici il tempo è quasi sempre – in linea con la loro tradizione poetica –  uno stato impermanente e fluttuante ma indiscutibile, un presupposto da accettare, dal quale farsi sorprendere e con il quale far collimare un altrettanto mutevole paesaggio interiore.

©  Rinko Kawauchi, Untitled,  dalla serie “Illuminance”, 2009
© Rinko Kawauchi, Untitled, dalla serie “Illuminance”, 2009

Al contrario, per noi, più che i fenomeni atmosferici in sé, hanno progressivamente acquisito più importanza le previsioni metereologiche. Prevedere significa affidarsi a un’ipotesi di futuro basata su degli indizi, come ci insegna il dizionario, ma pre-vedere, per chi pratica la fotografia, potrebbe significare anche preparare lo sguardo, prefigurarsi un’immagine.
Un’azione utile? Nel caso specifico, penso di no. Meglio meravigliarsi, non sapere se domattina pioverà o ci sarà il sole, ma affidarsi al caso, ammettere, insieme con Roni Horn, che qualcosa può e deve sfuggire al nostro controllo. Meglio amplificare le nostre capacità sensoriali durante esperienze dirette e inattese, approfittando delle condizioni climatiche, variabili e incostanti, per raccontare, con la fotografia, la caducità e la capacità di rinnovamento che ci rendono umani.
Forse, con il disgelo, come recita uno haiku di Natsume Sōseki (1867-1916), finiremmo per afferrare la grazia di  «Poter rinascere/piccolo…/Pari a violetta».

 

Senza fine

 

Il simbolo dell'infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo
Il simbolo dell’infinito, tracciato su un muro della Trappa di Sordevolo

Nei primi anni Duemila, ora non ricordo con precisione quando, fui inviata a Torino insieme con altri professionisti a due giornate (gratuite) di lettura portfolio organizzate dalla Fondazione italiana per la Fotografia. In quell’occasione, conobbi un vero gallerista illuminato, Raymond Viallon, titolare a Lione dello spazio “Vrais Rêves”. Ci trovammo subito in sintonia e – seduti allo stesso tavolo – invitammo una signora (forse signorina) cuneese, dall’abbigliamento gozzaniano, a mostrarci il suo lavoro, dopo aver notato che tutti gli altri colleghi si rifiutavano di prestarle la dovuta attenzione. Il motivo di tale rifiuto era evidente: la malcapitata teneva tra le mani un blocco di più di trecento fotografie a colori formato cartolina. Non un portfolio, quindi, ma una mole di immagini davanti a cui era facile arrendersi. Io e Raymond non demordemmo e la sorpresa ci ripagò della pazienza quando potemmo finalmente vedere di cosa trattassero le fotografie. Il soggetto era unico: lumache. Lumache che abitavano il suo giardino. Lumache fotografate per oltre un anno, con particolare attenzione al momento dell’accoppiamento. Lumache che avrebbe continuato a fotografare senza darsi una scadenza temporale.
Personalmente, non riesco a sottrarmi al fascino che esercitano alcune ricerche ossessive e spiraliformi e questo aneddoto mi offre lo spunto per una riflessione assai complessa: quando un lavoro fotografico può definirsi infinito? Deve contenere una quantità numerica straordinaria di immagini, ovviamente coerenti fra loro? È necessario che accompagni l’autore per tutto il corso della sua esistenza? O è sufficiente che contenga concettualmente l’idea di infinitezza?
Per tentare di rispondere nel breve e non esaustivo spazio di un blog, inizierò con un paio di esempi estrapolati dalla mia biblioteca.
Il primo ha una copertina monocromatica in tela verde ed è Atlas, di Gerard Richter, acquistato a Prato in occasione della mostra antologica del 1999, volume che mai mi stanco di consultare e che raccoglie 600 immagini tra fotografie, schizzi e ritagli, collezionati nel corso di una consistente porzione di vita. Un’opera in fieri, giustamente definita enciclopedica dai curatori dell’esposizione, ove progettualità, intimità familiare e stralci di informazione si mescolano producendo quello straniamento che solo le grandi imprese intellettuali dal sapore borgesiano sanno provocare.
Il secondo, nuovamente foderato in tela, ma questa volta blu, è un cofanetto che mi è molto caro e che custodisce le schede di Mnemosyne/Atlante, l’ultimo monumentale studio di Aby Warburg, terminato nel 1929 con la morte del suo autore e presentato al pubblico italiano dopo ben settant’anni, a Siena, nel 1998. Studio strabiliante, in grado di coprire la storia dell’iconografia dall’antichità alla modernità e – se esposto – fruibile attraverso stampe fotografiche in bianco e nero montate su pannelli di fattura artigianale. Non una puntuale duplicazione o catalogazione di oggetti artistici e documenti (poiché le catalogazioni, anche se ciclopiche, hanno valenze diverse, come ci insegnano i Becher), ma una densa sequenza immagini che dialogano per accostamento e forniscono combinazioni pressoché illimitate.
Abbandoniamo quindi i progetti in fieri, già accreditati di per sé ad appartenere alla sfera dell’infinito.
Proviamo piuttosto a circoscrivere i numeri e fermiamoci a una cifra comunque importante: cinquecento. Cinquecento sono i ritratti fatti da Alfred Stieglitz alla moglie Georgia O’Keefe e altrettanti i ritratti close up di anonimi newyorkesi scattati dal giapponese Ken Ohara negli anni 60 e pubblicati nel 1970 in un libro dal titolo emblematico: One.
Quale dei due campioni si avvicina di più all’idea di infinito? Opterei senza troppi dubbi per Ohara, mantenendo le riprese di Stieglitz nell’ambito dell’ossessione sì, ma de-finita, di tipo narrativo. La O’Keefe non è sovrascrivibile al suo proprio volto che mostra progressivamente i segni del tempo, né sostituibile con altre figure. Mentre le facce che compaiono in One, sono idealmente moltiplicabili per una quantità smisurata di volte. Non raccontano, non rappresentano. Semplicemente sono e si equivalgono.
Equivalere, essere alternabili: ecco l’azione che, al di là della quantità di immagini, può suggerire il concetto di infinito. Qui Stieglitz è legittimato ricomparire con i suoi cieli, gli Equivalents –  appunto – ed esser seguito – nomen omen – dai 365 cieli dell’Infinito di Luigi Ghirri o dai Seascapes di Hiroshi Sugimoto, statiche porzioni di mari reciprocamente intercambiabili e per nulla identificabili dalle indicazioni geografiche di cui sono corredati.
Senza fine, benché declinato in segmenti differenti, che riescono a vivere autonomamente, può inoltre essere l’oggetto di una ricerca: basti pensare alla produzione di Cindy Sherman interamente e incessantemente dedicata all’autorappresentazione e la messa in scena della donna in genere. Stesso discorso può valere per la produzione di Joan Fontcuberta, tutta pensata in forma di antidoto critico contro la presunta veridicità della fotografia, così come può valere per l’opera omnia di John Hilliard, da sempre incentrata sull’ambiguità e la peculiarità strutturali al mezzo fotografico.
Ricapitolando, alcuni lavori sono imponenti per il numero di materiali che li compongono, ma non “appartengono” all’infinito. Altri invece infiniti lo sono realmente, poiché impegnano una vita intera immutando la loro condizione di progetti in divenire. Altri ancora lo sono poiché, pur non vantando insiemi rilevanti di scatti, fanno leva sull’intercambiabilità delle fotografie, sul loro procedere per quantità teoricamente infinite.
E mentre io termino questo articolo, sono certa che, in un orto delle Langhe, una donna continua a curvarsi sul terreno con una fotocamera, per inquadrare al meglio il lento muoversi delle sue lumache.

 

 

Due cuori e un capanno

 

Tarzan, Cheetah e Jane
Tarzan, Cheetah e Jane durante le riprese di un film

Qualche settimana fa, accompagnata da due cari amici che praticano seriamente la fotografia, Gabriella Martino e Gianni Rossi, ho visitato una piccola oasi naturalistica appena inaugurata e adibita al birdwatching. Il percorso, guidato, prevedeva l’accesso ai capanni ove i fotografi, dopo aver pagato una tariffa oraria, potranno appostarsi in attesa di un esemplare disposto inconsapevolmente a posare per loro. Capanni, o meglio piccole casette confortevoli, calde e dotate di un grande vetro che si affaccia direttamente sull’habitat di pregevoli uccelli stanziali e migratori.
Suscitando spesso dubbi tra i miei colleghi, dubbi che ancora non mi sono chiari, da anni presto molta attenzione alla fotografia naturalistica, poiché ne intravvedo le potenzialità autoriali. Eppure il pomeriggio trascorso in quel piccolo spazio incontaminato mi ha lasciato perplessa e irritata.
Credo fermamente nella componente esplorativa della fotografia, che certo va ben oltre la sua applicazione squisitamente scientifica: ed è in particolare quando essa si rivolge a soggetti botanico-faunistici, che ne riconosco le origini risalenti alle primitive incisioni rupestri, indiscusse eredità ancestrali del nostro bisogno di esprimerci e comunicare. L’Homo sapiens ha da sempre sentito la necessità di rappresentare e rappresentarsi, di rapportarsi creativamente, insomma, con la realtà che lo circonda, attribuendole significati e simbologie sovente “saccheggiate” proprio dal mondo animale o vegetale.
Per questo motivo, penso quindi che il segreto per una buona fotografia (non solo naturalistica) non derivi tanto dal possedere un adeguato corpo macchina, quanto piuttosto nel divenire noi stessi corpo dell’ambiente che decidiamo di sondare. Tradotto in termini più semplici: chi ha una visione antropocentrica dovrebbe cercare di farsi uomo tra gli uomini, chi, al contrario, allarga la sua ottica all’intero mondo naturale, dovrà sforzarsi di farsi animale tra gli animali, o albero in una foresta.
Sostare/spiare ore dietro a uno schermo, comodamente seduti su una morbida poltroncina girevole, sperando che un airone distenda le sue ali per essere catturato da un obiettivo, invece, è altro e ha una componente voyeuristica molto marcata. Componente che certo appartiene alla fotografia, che di per sé non è disprezzabile e che ha fornito esempi notevoli nella storia della fotografia e delle arti visive in genere, ma che resta comunque altro.
Consideriamo che cose e attitudini reclamano di essere chiamate con il loro nome. E che amare la natura, amarla fino a volerla interpretare con la fotografia è materia su cui riflettere senza concederci sconti.
Lo insegna egregiamente Jean-Christophe Bailly, ne Il partito preso degli animali, libro suggeritomi felicemente da Gabriella: «(…) immaginare quello che accade e quello che si prova – quello che c’è – quando, per esempio, si sta a trenta metri dal suolo e si salta di ramo in ramo, oppure che cosa c’è e cosa comporta avere un corpo che pesa venti grammi e percorre migliaia di chilometri (le rondini) o, all’opposto, averne uno di parecchie tonnellate con cui entrare nell’acqua di un fiume (gli elefanti). E via dicendo. Dunque immaginare le sensazioni che provano gli animali, da dove derivano le loro gioie e le loro frustrazioni. Non perché può essere divertente, ma perché da ognuno di questi percorsi la nostra visione del paesaggio riemerge allargata, arricchita, emancipata».
Capite bene che tutto ciò, al riparo e dietro a un vetro, non è possibile.